Fino al 30 marzo 2025, negli spazi della Fondazione Sant’Elia di Palermo, è in corso la mostra Pinakothek’a. Da Cagnaccio a Guttuso, da Christo e Jeanne-Claude ad Arienti, curata da Sergio Troisi e Alessandro Pinto, esito di un’attenta e sensibile selezione di opere provenienti dalla ricca collezione Elenk’Art della famiglia Galvagno. Suddiviso in nuclei narrativi, il percorso espositivo ospita oltre 200 opere per più di 150 artisti. Spiccano, senza ombra di dubbio, la sala personale dedicata a Renato Guttuso e quella del Gruppo Forma Uno, con opere di magistrale eleganza, insieme a nomi assoluti della storia dell’arte, da Castellani a Nitsch, Oppenheim, Pascali, Salvo, Schifano, Spalletti e Turcato. Abbiamo intervistato il collezionista Francesco Galvagno per scoprire come nascono il suo gusto e la sua pratica per il collezionismo d’arte.
Quando inizia il tuo interesse per l’arte?
«A pensarci, mio padre collezionava già. Io probabilmente mi sono ritrovato a farlo in modo diverso. Ho collezionato più cose, ma mi trovavo già in questa condizione con mio padre. Forse non c’è un vero inizio. Se volessi ricercarlo, lo farei coincidere con il mio primo acquisto di un quadro nella galleria di Franca Prati a Palermo. Quindi sì, forse tutto è iniziato con lei, con cui passavo interi pomeriggi a parlare di arte, imparando tante cose».
Che tipo di collezionista ti definiresti?
«Preferirei non definirmi. Posso dirti che non mi piace il concettuale. Poi, però, vedo una cosa bella del concettuale e la compro. Mi interessa il lavoro bello, quello che prescinde dalla tecnica o dall’idea dell’artista».
Quindi collezioni più opere che artisti…
«Beh sì, sicuramente».
Che rapporto c’è tra gusto e mercato? Cosa governa nella scelta di collezionare un artista?
«Il gusto prima di tutto. In mostra ci sono artisti che non sono di “moda”, che non vengono premiati dal mercato. Però a me piacciono e li compro perché a mio avviso hanno fatto opere eccezionali».
Cosa vuol dire per te collezionare?
«Forse è la necessità di rispondere a un bisogno più profondo, legato alla bellezza. Qualcosa che sento dentro e che devo appagare. Quando vedo cose che mi piacciono sento già, in automatico, che questa esigenza dell’anima è stata appagata. E questo mi rende felice».
E dopo cosa succede?
«Subentrano altre cose. Magari ti rendi conto che ti piacciono dei periodi o dei movimenti e vuoi collezionarli. Come, per esempio, il Gruppo Forma Uno che a me interessa molto. E, quindi, possibilmente se trovo una cosa che mi piace molto la compro, per il discorso appena fatto, che appaga il mio bisogno di bellezza. Però arrivo al punto in cui cerco di unire quello che mi piace a quello che può servire alla collezione o per completare un periodo».
Parliamo della mostra Pinakothek’a alla Fondazione San’Elia di Palermo. È solo una parte della tua grande collezione, ma come ti fa sentire condividere con il pubblico il tuo impegno e la tua passione?
«Mi fa un po’ paura».
Paura? Mostrare la tua collezione è un po’ come mostrare Francesco Galvagno?
«Eh sì. È una parte di me che si mette in mostra».
Cosa provi pensando che alcune di queste opere sono state esposte in importanti musei internazionali e ora, grazie a te, sono esposte nella tua città?
«Da una parte è bello, mi fa piacere. Dall’altra, mi preoccupa. Con questa mostra alterno fasi di felicità a quelle in cui sono più pensieroso. Non ti so spiegare meglio. Sono così».
Alcune di queste opere accompagnano i dipendenti di Elenka, la tua azienda, ogni giorno. Come pensi che contribuisca l’arte nella loro quotidianità?
«Credo che ognuno dei miei collaboratori possa trarne benefici e insegnamenti di vita. L’arte insegna a vivere, è un mezzo che serve per essere aperti al mondo. Ogni tipo di beneficio che derivi dall’arte tuttavia dipende da noi. Sono convinto che l’arte faccia vivere meglio. Meglio vivere in un posto dove c’è arte che in uno in cui non ce n’è».
In mostra c’è tanta pittura. Cosa vedi nella pittura di così importante?
«Ah guarda, non lo so. Al di là della figura ci sono le “pittate” degli artisti. C’è il loro modo di mettere il colore. C’è la loro energia con cui riescono ad esprimere cose che io non potrei mai. È questo che mi affascina: ciò che io non saprei fare mai».
C’è un nome al quale sei più affezionato tra gli autori delle opere che collezioni?
«Alcuni mi piacciono più di tanti altri che sono in collezione, ma uno in particolare no. Mi interessano un sacco di cose, tutte diverse».
Hai un ricordo intenso legato a uno di questi artisti o a una delle opere di tua proprietà che continua ad animare la tua passione?
«Un ricordo piacevole è legato al mio primo acquisto. L’ho fatto quando mi sono sposato, da Franca Prati. Si trattava di un’opera di Mimmo Germanà eseguita nel 1985. Un bel quadro che ho ancora e a cui tengo tanto. Di ricordi però ne ho tantissimi, specialmente con gli artisti viventi con i quali c’è un rapporto continuo e quotidiano. Come con quelli di Palermo, in egual modo sono amico di artisti non palermitani, con cui mi vedo e con cui scambio opinioni. È con questo tipo di artisti che avvengono le cose più belle».
Cosa vuol dire collezionare artisti della propria terra? Hanno per te delle caratteristiche particolari?
«Più che altro riconosco che per ora a Palermo c’è un clima molto positivo per gli artisti. Sembrerebbe che vada tutto male, ma a Palermo c’è una quantità e una qualità che da altre parti non emergono. Di questo ne sono convinto. Inutile dire che tra questi sono particolarmente affezionato ai quattro della Scuola di Palermo, Alessandro Bazan, Andrea di Marco, Francesco De Grandi e Fulvio Di Piazza. Con Andrea di Marco, in particolare, c’era un rapporto veramente quotidiano».
Che mi dici degli artisti emergenti? Per un collezionista è importante puntare l’attenzione anche su di loro? E cosa significa “sostenere” un artista?
«Penso sia fondamentale, per gli artisti giovani, avere una persona che li sostenga e che creda fortemente in quello che fanno. È anche un modo per incoraggiarli. Spesso perdono la voglia di fare perchè non c’è nessuno a investire su di loro. Mi dispiace che ci siano poche persone che facciano questo con i più giovani».
Secondo te che ruolo ha la tua collezione nel nostro tempo?
«Ritengo che abbia un valore culturale, soprattutto perchè offre una vetrina anche ad artisti a cui il mercato o la moda non danno il giusto risalto».
Stai pensando a costituire una fondazione? Puoi darci qualche anticipazione?
«Aprire una fondazione è il mio sogno nel cassetto. Difficile da realizzare, ma non impossibile. Richiede sacrificio, impegno, ma sono convinto di potercela fare in tempi brevi. Soprattutto per un motivo. Quando qualcuno, come sta succedendo adesso che la mostra è visitabile, addetto o meno ai lavori, mi domanda informazioni e curiosità su un artista o su una particolare opera, è per me un segnale di speranza. Palermo forse dovrebbe impegnarsi di più in questo senso. Dovrebbero esserci più spazi per l’arte, dove andare in autonomia a guardare e farsi un’idea delle cose».
Cosa consiglieresti a chi vuole dare vita a una collezione?
«Di partire con quello che si può fare, senza pensare per forza a cose irrealizzabili. Collezionare quello che si può. Non è il prezzo o il grandissimo nome a definire la qualità e il valore artistico di un lavoro, ma la sua bellezza intrinseca».
Infine, ma non per importanza, c’è una persona che ti sta accanto e ti supporta in tutto questo?
«Avere una persona accanto che condivida il tuo stesso amore e la tua stessa passione per l’arte è fondamentale. Io fortunatamente ho mia moglie».
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