Pietro Ruffo (Roma, 1978) è puntuale. Nel senso che ignoriamo se sia solito presentarsi in perfetto orario agli appuntamenti; però sulla sua precisione nel far coincidere tecnica e riflessione sociologica ci mettiamo la mano sul fuoco. Questa è la puntualità che pretendiamo da un cecchino della penna bic. Fino al 10 novembre prossimo Ruffo è alla monegasca NM Contemporary con “The politics of stars”.
Tre serie di lavori, più o meno prodotti negli ultimi due anni. Un tempo preziosissimo dato il format di questo allestimento, volutamente concentrato solo su pezzi che prima abbiano fatto il loro corso. Che siano praticamente “stagionati” acquisendo un proprio background tempo-narrativo, quindi selezionati e riuniti assieme poi, offrendo una nuova – più ampia – prospettiva. Vi diremo che questo discreto lag produzione-esposizione si porta in dote una personale un po’ più “mostra”, e meno “vetrina”. Ma tutto sarà più chiaro alla fine di questo articolo.
Quel che è chiaro da subito sono i contenuti in termini di tecnica e poetica offerti da Ruffo. Immediati, quanto le iconografie smaccatamente stereotipanti delle Gold Migrations, un pullulare di flora e fauna strappate al colonialismo ottocentesco e “incastrate” fino a delineare – in maniera endemica – il continente d’appartenenza. L’America del Nord ad esempio, dove l’orso polare cede il passo al pellerossa, ovviamente dal tipico copricapo in piume.
Un lavoro storico-etnografico redatto a bic, che se la deve vedere col mix di oro e fitti reticoli di pieghe della coperta termica utilizzata come supporto. Oggetto semioticamente già contraddittorio nel suo oro che non rappresenta benessere/lusso, bensì uno stato di emergenza con annessa disperazione. Qui è un emblema, basamento per una sorta di altare con dedica ai “migranti ignoti” di tutti i tempi. Personaggi a margine di una storia patria che poco li contempla, ma di cui pure sono parte.
La monumentalità che si è riusciti a ricostruire in galleria è quella di un piccolo memoriale. L’effetto speciale del mare di rifrazioni luminose che l’oro muove sul pavimento interagendo con aria e luci invece no, ed è una metafora talmente sottile da impossibilitare la sua traduzione a parole.
Ciò che resta in mano scorporando l’opera di Ruffo dal suo linguaggio stereotipo-allegorico è la raffinatezza tecnica con cui l’artista romano elabora disegni complessi, che ad ogni occhiata acquisiscono nuovi particolari e dettagli sostanziali. Ruffo è un narratore compulsivo. Il suo andamento è “rilassato”, alla maniera dell’Urbe, tratto caratteriale-territoriale che si rispecchia anche all’atto pratico.
Non può che essere così a guardare come con tanta, e rimarchiamo tanta, attenzione al dettaglio riesca a produrre la meta-geografia a bic della serie Migrazioni. «Ci ho messo tre mesi» quando curiosi come le scimmie gli chiediamo delle tempistiche per la realizzazione di un solo lavoro della serie. Nel particolare parliamo di Migrazioni 45, grande stella ad otto punte dove attraverso la figura dell’elefante l’artista va a riflettere su un bisogno fisiologico della politica: il potere (il cui simbolo è appunto il pachiderma), e il suo mantenimento attraverso minacce e spauracchi utilizzati come topoi populisti. Esecuzione perfetta, per una riflessione immacolata che orbita attorno all’amministrazione della res publica.
Dirimpetto è stato sistemato un altro pezzo della stessa serie, con cui toccheremo un altro punto dell’universo Ruffo: l’intaglio su carta. Attività molto concreta (enfatizzata dalla moltitudine di spilli applicati a rialzare il materiale asportato) paradossalmente chiamata ad allegorizzare una terra voliera, dove gli uccelli sono metafora umana nella metafora generale. Per poi tornare a prendersi la sua concretezza, nel piglio dimensionale di un bassorilievo; o, meglio ancora, di un plastico in cui l’artista esce allo scoperto con la sua formazione d’architetto. Sullo sfondo penna blu su carta millimetrata dello stesso tono, perché dice «Ricorda le azulejos portoghesi» affrontate in altre sedi.
Infilandoci nei panni dell’artista romano potremmo dire di non essere più “tutti sulla stessa barca”, ma inconsapevolmente “tutti nella stessa gabbia”. All’interno di questa ci spostiamo, proprio come gli uccelli, perché ed emigrare secondo Ruffo è una pratica «Insita nella natura umana». E se emigrare è umano, dare un qualsiasi valore/colore “politico” a quest’azione non è certo da meno. In Italia – aperta e chiusa parentesi – siamo assai ferrati in materia.
A questo punto vi passiamo qualche chiave di lettura. Potrebbe essere utile guardare l’opera di Ruffo come una questione di vasi comunicanti, in cui ogni azione pratica è subordinata all’uso della metafora. A sua volta indispensabile per raccontare un presente che, ancora a sua volta, l’artista ci consegna come profondamente dipendente dal proprio passato storico. Un universo poetico e comunicativo “pregno”, che anche in virtù di ciò non può fare a meno dell’estetica determinata dal suo tratto disegnativo potente, iper-figurativo.
Un’altra chiave è più che altro un passepartout, gentilmente prestatoci da Ruffo in persona: gira che ti rigira siamo sempre gli stessi, e sempre nello stesso pianeta. Tutti migranti, un’unica miscellanea culturale di cui proprio il Principato di Monaco diventa una sorta di paradigma, caotico punto di ritrovo animato da presenze esogene più che indigene. Da italiani ad esempio, perlomeno se si capita en passant come il sottoscritto, in fondo ci si sente di casa.
E per un’altra chiave un’altra metafora, col raffinato enclave a catalizzare opere che hanno girato un po’ tutto il mondo, passando – per dire – da Calcutta a Washington a Lisbona. Ora per la prima volta tutte insieme, tutte in Europa, tutte in una galleria privata. Prime volte che sommandosi restituiscono il senso di una personale che per trattare di politica delle migrazioni si affida coerentemente ad opere fondamentalmente “migranti” in terra straniera. Capito adesso quando si parlava di “stagionatura” e “background”?
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