Adiacenze di Bologna riapre con una mostra di grande impatto, esito della residenza che Silvia Argiolas (Cagliari, 1977) ha svolto alla fine di maggio, inaugurata su appuntamento lo scorso 3 giugno.
Dopo “HOLE”, la super collettiva fruibile solo dalla soglia attraverso fori e lenti fisheye, si torna a vivere in tutta la sua estensione l’area di due piani dello spazio espositivo. Il progetto “Promiscuità e Compassione”, a cura di Domenico Russo, si realizza con la collaborazione de La Foresta – iniziativa editoriale che a ogni numero ospita quattro artisti per volta, con a disposizione una pagina bianca per opere inedite, e interventi di critici.
Titolo altisonante come il nome a cui è ispirata, “Promiscuità e Compassione” della Argiolas omaggia John Giorno (New York, 1936 – 2019), distillandone con le sue immagini l’essenza e le parole.
Percorso che si snoda su due livelli, di concezione dello spazio e di pensiero che dall’apparire esteriore discende verso l’interiorità, talvolta come sappiamo oscura e spaventosa già a noi stessi. Dai colori abbaglianti della pittura si passa a quello che appare come un antro orrifico, eppure così familiare a chiunque voglia fare i conti con la propria promiscuità e colpevolezza, e che elegge come concetto centrale il perdono, strumento per una rinnovata serenità con se stessi e nel guardare ed empatizzare con le cose d’altri.
Proposte, oltre a due serie su carta e su tela di piccolo formato, opere singolari e il lavoro site specific, restituzione della residenza a Bologna, di 5 x 3 metri: una coinvolgente pittura strato su strato, una composizione affollata di soggetti dei più disparati, forme e figure tra l’astratto e il figurativo, sgargiantissime e particolarmente estroverse. Una promiscuità, appunto, di soggetti che sembra riunire in una visione d’insieme elementi di altre opere esposte nelle sale precedenti.
La ricerca odierna dell’artista poi, intrapresa nella sua casa studio di Milano, vede coinvolta la scultura: da giugno 2020 nell’ambito di questo progetto con Adiacenze ha intrapreso la produzione di una serie di maschere, qui poi riunite in una installazione particolarmente impattante. Maschere funerarie che testimoniano l’assenza (di persone che sono venute a mancare, persone che hanno segnato o comunque suggestionato la vita dell’Argiolas), che abitano una costruzione che appare come un sepolcro, un altare laico che garantisce che siano pur sempre presenze vive, nel ricordo, nel dolore, nell’amore.
Amore nel senso che ne suggerisce Giorno: “love from the same root of boundless compassion” / amore dalla stessa radice di sconfinata compassione.
Abbiamo incontrato l’artista, con non poca curiosità.
Che rapporto hai con la poesia, in questo caso con quella di John Giorno che ti è stato d’ispirazione?
Ho sempre letto poesie. Da bambina scrivevo, nel tempo ho poi maturato un tale rispetto, e così grande, per la poesia che non mi permetterei mai di scriverne ancora. Ho consapevolezza che i poeti sono pochi, ho coscienza per capire che non si può fare tutto ciò che si ama, leggo le poesie e mi basta, mi basta per capire che il mio linguaggio è un altro, però attraverso la poesia riesco poi a dipingere. In precedenti lavori mi sono legata da Sandro Penna a Dario Bellezza, da Juan Rodolfo Wilcock a Michel Houellebecq, a Pasolini…In John Giorno ho sentito il modo in cui affronta i temi del sesso, dell’amore e allo stesso tempo della morte, in riferimento alla catastrofe epidemica dell’Aids degli anni Ottanta/Novanta e mi sono risuonate mie esperienze personali. Cerco sempre delle vie per unire i miei amori, per la poesia e per l’immagine.
Pensi ci sia un giudizio religioso nella promiscuità?
La mostra parla dell’empatia, dell’immedesimarsi nell’altro, nel dolore altrui, nel guardare l’altro e riconoscersi. Accolgo il concetto di compassione nell’accezione buddista tibetana, nell’approccio di John Giorno. Probabilmente, in questo senso, voglio approfondire la religione buddista, provengo da una famiglia estremamente cattolica, non sono mai stata credente. Ho sempre pensato: “alla fine ognuno fa quello che vuole” ma perché sente un vuoto.
E le tue opere invece, in pittura, in scultura o ce lo dimostra l’installazione che proponi qui da Adiacenze, sono pienissime e dense. Come nascono le maschere?
La prima maschera è stata un mio ritratto di ceramica dipinta, una maschera mortuaria che però per me rappresentava una sorta di rinascita, non un calco ma un’interpretazione di me, una mia nuova immagine, l’ho realizzata alla fine di un rapporto ed è andata a un collezionista. Ho pensato che il passaggio successivo sarebbe stato non più dipingerle, ma crearle cercando dei materiali sempre diversi, come se la personalità dietro a ognuna (sono dedicate a persone specifiche) influisse nella scelta di quali materiali usare e io cerco continuamente materiali, in qualsiasi posto vada sono in cerca di negozi di Belle Arti e di oggetti, che poi possono entrare nell’opera. Quelle esposte qui sono circa 30 maschere, scarnificazione dei ritratti in pittura che si trovano su, nel primo livello della mostra. Perché il piano sotterraneo l’ho vissuto come livello in cui far uscire tutto quello che provo dentro, emotivamente.
Qual è l’aspetto più significativo di questa esperienza a Bologna?
La libertà, soprattutto. Adiacenze è un posto molto bello anche per questo. Mi hanno lasciato libera di sperimentare, e per me è molto importante non sentire la pressione, importante fare una residenza, avere una grande tela e le chiavi per entrare a dipingere quando potevo, quando volevo. Bologna inoltre mi dà una percezione di libertà, anche se le persone sembrano ancora un po’ legate al passato. Mi ha colpita tantissimo la quantità di scritte sui muri, cosa che mi piace molto, alcune scritte mi rimangono, le leggo come poesie.
DIDASCALIE
Pianoterra
“Riempire quel che è vuoto, svuota quel che è pieno”, 2021, tecnica mista su tela, cm 300×500. Courtesy dell’artista; Adiacenze. Crediti fotografici © Matteo Campulla
“Promiscuità e compassione”, 2020/21, tecnica mista su carta, Installazione di 26 opere su carta, cm 35×24. Courtesy dell’artista; Adiacenze. Crediti fotografici © Matteo Campulla
Seminterrato
“Sezione di me”, 2021, installazione ambientale composta da materiali misti e maschere. Courtesy dell’artista; Adiacenze. Crediti fotografici © Matteo Campulla
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