Hanno un aspetto antico, familiare, eppure misterioso, gli oggetti che Steve Riedell ha esposto negli spazi dello Studio Trisorio. Posseggono uno spessore che è certo stratificazione materica, ma lasciano allo stesso tempo trapelare un accumulo di idee e ripensamenti, di tentativi, finiture e rifiniture, composizioni, scomposizioni, ricomposizioni, insomma un andirivieni multiforme che la mostra fotografa in uno stadio in potenziale divenire. Il mistero, come in ogni artista, è nel processo, nella spinta creativa – mentale e materiale – che porta Riedell a una determinata configurazione, all’intricato susseguirsi solchi e tasselli, di linee incise e dipinte, continue e interrotte come in un andamento ritmico ma arbitrario. La familiarità è nell’officina in cui sembra di ritrovarsi, tra scarti di falegnameria, avanzi di vernice e levigatrici.
Ci sembra che questa impressione trovi in qualche modo conferma nelle parole dell’artista stesso: «ricordo che mio padre ridipingeva il nostro recinto di anno in anno, di solito con lo stesso colore. Questo atto che sembrava di routine e poco importante in verità era miracoloso nel modo in cui la superficie veniva sigillata, sostituita da ciò che sembrava essere una lavagna pulita, ma ad un esame più attento quella storia era evidente in modi sottili come un sottostante ricordo d’uso» (Steve Riedell, aprile 2021). Ecco allora che gli assemblaggi di schegge (segmenti, tavole, listelli) di legno rivelano una loro storicità che si compie nel tempo, nei giorni, negli anni. Suona lievemente bizzarra la scelta dell’artista di definire le sue opere dipinti, laddove la superficie pittorica appare invece punto di partenza di volta in volta rinegoziato, negato, stravolto. E tuttavia l’atto del dipingere, dello stendere il colore sulla tela, poi rifinirlo con una spatola o con uno strato di trementina, e successivamente incollare la tela su un ripiano di legno o tenderla su un telaio, per poi smontare, ritagliare, ripiegare, ristendere, restituisce chiaramente l’immagine del palinsesto, del sovrapporsi di un’azione dopo l’altra, sempre uguale eppure diversa ogni volta.
È in parte l’eredità della pittura americana degli anni ’40 e ’50, questo accumularsi dell’esperienza su un piano che non è però soltanto quello della superficie, ma coinvolge i piani laterali, quello posteriore. L’opera continua anche laddove non viene vista, sulla faccia che poggia contro la parete o negli interstizi tra una sagoma e l’altra che compongono il quadro. In questo senso, nello spessore dell’opera che è specchio della processualità del pensiero, si condensa anche tutta la sua misteriosità. Vale per le tavole assemblate di The Garden, 2015, Untitled (Pieces), 2020, Reeds, 2016, Strings #4, 2018, Diamond Painting (White), 2020, in cui la tela viene incollata alla tavola – tecnica adottata dall’inizio degli anni ’90 – e per i Folded-Over Paintings come Untitled (Mexico), 2019, Folded-Over Painting (Gray), 2012, Now That it’s Over, 2014 e Bed, 2020, serie avviata dalla fine dello stesso decennio, in cui la tela e il telaio vengono lavorati indipendentemente l’una dall’altro e poi assemblati, ma anche smontati, risagomati, rimontati: il telaio qui non è più sostegno dell’opera ma ne è elemento, contribuisce alla forma della tela che rimane però autonoma, rivela bozzi, accartocciamenti, pieghe. Il dipinto non è l’immagine appiattita sul supporto, ma è ciò che avviene attorno ad esso.
L’inaugurazione della mostra di Steve Riedell a maggio è stata l’occasione per presentare al pubblico anche il nuovo spazio espositivo in via Carlo Poerio, di cui Laura Trisorio aveva ci aveva parlato in anteprima.
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