Entrare nel cinema, attraversare l’elegante foyer dalle pareti rivestite in pietra rosata e raggiungere la sala delle proiezioni, con portici architravati e logge ribassate. Sedersi sulle poltrone, luci in sala, il cono di luce che si accende e l’attesa è finita. Il cinema è pieno, eppure non è una serata come le altre. Siamo ne La Compagnia e questo è Lo Schermo dell’Arte, festival ideato e diretto da Silvia Lucchesi e dedicato alla sperimentazione tra cinema, moving images e arte contemporanea, giunto ormai alla sua 14ma edizione. Le sequenze che illuminano la sala del cinema fiorentino sono di Redoubt (2019, 134′), lungometraggio scritto e diretto da Matthew Barney, artista regista e performer, creatore di opere come The Cremaster Cycle (1994–2002) e River of Fundament (2006–2014).
Strutturata come una scatola cinese, con fondi e sottofondi, la pellicola è ispirata al mito di Diana e Atteone delle Metamorfosi di Ovidio, con sequenze di sei battute di caccia, che si protraggono per sette giorni e sette notti. Ma se il cuore è greco antico, il sangue è quello americano dei paesaggi innevati della Sawtooth Mountains in Idaho, Stati Uniti. È tra queste terre che si fa largo, nel giovane Barney, una riflessione intima, quasi segreta, tra sé e queste montagne dove è cresciuto.
Il mito descritto da Ovidio, quello antichissimo della caccia/ricerca (il primo tema dell’arte in assoluto) e della mεταμόρφωση intellettuale e spirituale, che la Natura (Diana) ci costringe a compiere, fino a una dolorosa trasfigurazione (la morte di Atteone ucciso dai propri segugi/strumenti di caccia) trova sicuramente un respiro universale ed educativo.
Altrettanto chiari sembrano essere i riferimenti della grammatica barneyana. I corpi atletici, muscolari delle ninfe (le ballerine Eleanor Bauer e Laura Stokes) e di Diana (la tiratrice scelta Annette Wachter) che attraversano la foresta, la neve, il freddo e la pioggia in uno sforzo temerario e rituale. La conoscenza e le tecniche con cui questi soggetti si interfacciano con l’ambiente, cordini e imbracature per arrampicate, i fucili a lungo raggio, le ottiche militari, pedane e cavalletti di precisione, tute termiche, scarponi tecnici, circuiti chiusi e camere mobili in grado di visionare alberi, anfratti e arbusti a distanza.
Una superfetazione di oggettistica utile e inutile, sfruttata solo in parte e ai limiti di un feticismo, di un lusso e di un’estetica survivalista, totalmente fine a se stessa. L’effetto dovrebbe essere quello della (ri)creazione di corpi/cyborg potenziati nel corpo e nei tool, di sculture divine, in sintonia con le tematiche barneyane, selvagge e simbolizzanti.
Ma probabilmente l’artista, qui, tra le terre innevate di casa, prossimo alla radice delle sue ossessioni, dei suoi ricordi più primitivi e infantili, ha raccolto il proprio limite e la propria natura profonda, difficile o forse impossibile da osservare. I pick-up sporchi di fango, i denti delle montagne al tramonto, la luce della luna, gli alci che attraversano con circospezione le piste battute, una roulotte vicino al fiume e in mezzo al nulla. Le ninfe e la dea che come antichi cavalieri della steppa attraversano la terra in silenzio, qui dove daini, puma e soprattutto loro, i lupi, sono i padroni della scena. Qui dove i sapiens vengono degradati al ruolo di comprimari, se non di comparse, tecnicamente superiori ma incerti di vincere la sfida con la natura e le sue creature.
Quello che veramente funziona in questo lungometraggio è il Barney intimo, dall’incedere timoroso, forse nostalgico, del suo cafè al diner bar, di quella divisa da ranger per cui è tornato qui dopo tanti anni, per rimettersi in ascolto di tutto ciò da cui si era allontanato. Un Barney che si moltiplica nei personaggi, che assumono ognuno un suo aspetto o carattere o funzione. La ninfa scalatrice che si arrampica fino a comporre una splendida figura perpendicolare a un pino. La Diana-Watcher, nel suo sforzo di procacciatrice di sapienza, quanto di bilanciere di energie e tensioni del biosistema che attraversa. L’operatrice KJ Holmes, che dall’interno di una roulotte si occupa dei bagni galvanici delle incisioni in rame prodotte durante le riprese del film. Il Barney atleta, equilibratore e manipolatore. E ognuno di loro, nel proprio agire, pervaso dagli stessi silenzi e isolamento d’alta quota.
In Redoubt il tipico “self-enclosed aesthetic system” (Nancy Spector) di Barney, potente e irradiante, sembra stavolta andare in pezzi, disperso in una nuvola di operazioni, di scoperte e ascolti, in cui il ritmo delle immagini e delle azioni rimane lento e naturale, attutito dalla neve che trattiene ma protegge, come una materia madre.
Se lo stesso artista non ha mancato di sottolineare la totale ricostituzione artificiale del fauna di queste terre (lupi, trote, cervi e alci) attentamente monitorato dalle agenzie governative, forse a suggestione di un ambiente ormai povero di ogni spontaneità, non di meno i pezzi, le carcasse, le scaglie, segni e incidenti dei manufatti di Barney (Diana on shooting Bench, Cosmic Hunt, Diana, Diana State Two – 2018) seppur prodotti di finissima incisione, fusione ed elettrolisi, sembrano nascere sotto forma di residui di depositi alluvionali, soggetti di cristallizzazioni di senso e materia, coinvolti da processi di estrazione più che di produzione.
Un’ attività che non si ferma al luccichio delle lastre di rame e dei calchi di tronco intagliati e fusi nell’ottone, ma che tra distese di proiettili 7,62, cavalcate notturne e panorami d’avventura fonde come in bagni elettro-chimici immaginari diversi, arcadici, della “frontera”, della gold rush ma anche pop come i videogiochi alla Call of Duty e Red Dead Redemption. Perdendosi dunque ogni distanza cartografica tra il costrutto e il costruttore, tra la natura e l’individuo che lì attraversa. Una inversione che sta attraversando l’arte contemporanea in generale, sempre più assetata di storie, di environment, di quadrimensionalità.
Se dunque alla base del lavoro dell’artista di San Francisco vi è un gioco di drammatizzazione del reale e di realizzazione del drammatico, quella stessa ciclicità, di processo e sedimento e ancora processo, investe anche alcuni angoli di “Thinking Beyond – Moving Images for a Post-Pandemic World”, la mostra che riunisce le opere dei dieci artisti under 35 partecipanti alla X edizione di VISIO, ospitata dal progetto NAM alla Manifattura Tabacchi e curata da Leonardo Bigazzi.
Nel gioco di rifrazioni sullo spazio, interiore e esteriore, attraverso cui l’arte contemporanea tutta deve ormai misurarsi, la superficie specchiante del tavolo da ping pong dell’opera What my eyes behold is simultaneous di Thuy-Han Nguyen-Chỉ (23′, 2019) riesce a canalizzare ogni attenzione. In questo caso non tanto il manufatto quanto la sensazione di spaesamento e ambiguità immersiva che miscela il doppio schermo con la luce del tavolo da gioco, creano la sensazione, anche qui, di località sconosciuta, da esplorare e antropizzare, da definire con i propri codici e la proprie mappe mentali ed emozionali.
Così, come nel film di Barney, gli elementi dell’acqua di The Feeling of Nostalgia, di Alexadre Erre (7′, 2018), dell’aria di Just 1 Poem di Eleonora Luccarini (7′, 2021), dell’oscurità di Dedicated to the Youth of the Wolrd II di Khimei & Yarema Malashchuk (8′, 2019), cosi come della paura (A Sod State, Eoghan Ryan, 22′, 2012) e del dolore (41, ChongYan Liu – 7′, 2018) investono prepotentemente i nostri sensi. E allora ancora una volta ci troviamo nella disperata ricerca di un environmental balance, dispersi nel bisogno di far perdere le proprie tracce/angosce e di cogliere quelle preziose e vitali della nostra preda/aspirazioni.
Questo è Lo Schermo dell’Arte.
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