21 aprile 2024

Stranieri Ovunque: una Biennale in cui il queer smette di essere minoranza

di

Adriano Pedrosa mette le alterità al centro, protagoniste di un palcoscenico ammaliante. Il tutto è una esoticizzazione del corpo queer o una gaia critica?

Performance di Ahmed Umar ph. Andrea Avezzù Courtesy La Biennale di Venezia

Chi ha paura del queer? Chi sono gli stranieri? La Biennale Arte 2024 sfugge davvero alla norma? In un momento in cui disobbedire appare difficile e fuggire dalla norma sembra più un’azione commerciale eteronormata, in cui nessun sistema viene realmente messo in crisi e anzi le alterità straniere vengono normate solo per accomodare un gusto egemonico, Biennale Arte 2024, dal titolo Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere e curata da Adriano Pedrosa, sembra porre le alterità al centro, le fluidità identitarie come protagoniste di un palcoscenico ammaliante. Il tutto è una esoticizzazione del corpo queer o una gaia critica?

Frieda Toranzo Jaeger. Ph. Matteo de Mayda. Courtesy: La Biennale di Venezia

La paura deriva dai codici, dalle etichette imposte, dalle visioni duali dove l’altro è sempre visto in un rapporto di sudditanza. Lo straniero sta negli occhi di chi non ha viaggiato, lo strano pervade i cuori di chi non ha sognato. Pedrosa, invece, sembra aver ribaltato i rapporti e in Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere svanisce ogni confine e l’altro, l’alterità, diviene solo un nuovo modo per comprendersi, per vedersi, per vivere. Stranieri ovunque o da nessuna parte? Queer ovunque o non abbastanza?
Quest’anno in Biennale il corpo queer muta, si relaziona ad altro, mostra una pluralità di voci, di corpi che si mischiano per creare un paesaggio dai fluidi confini. Le politiche dei corpi sembrano assottigliarsi e il queer si mischia allo straniero, lo straniero si mischia all’identità e l’identità si mischia ai confini. Se si entra in quest’ottica, è impossibile distinguere chi siano gli altri e il tutto appare come un colossale corpo unico, un mostro dai mille sessi, dalle mille culture, dalle mille storie. La pelle queer diviene centrale e i concetti di fluidità, rigenerazione, orgoglio e fascinazione acquisiscono significati alti e colti.

Omar Mismar Ph. Matteo de Mayda Courtesy: La Biennale di Venezia

Entrando in Arsenale non si può certamente non notare l’imponente opera di Frieda Toranzo Jaeger, Rage Is a Machine in Times of Senselessness (2024). L’opera si presenta come un corpus unicum che immagina futuri queer in cui si mischiano tematiche diverse ma strettamente legate. Non vi è alcuna differenza tra i posizionamenti politici, la rivendicazione di una Palestina libera, un paesaggio tecnologico in simbiosi con la natura, il bondage, le origini bibliche e l’amore saffico. Attraversando i vari spazi, il clima di interazione e giustapposizione, tra storie e corpi sembra amplificarsi. Il mondo queer abbraccia lo straniero che si riversa in una moltitudine di corpi. Un chiaro esempio è Disobedience Archive (The Zoetrope), un progetto curato da Marco Scotini che si pone come un atlante delle tattiche di resistenza contemporanee. In occasione della Biennale, Disobedience Archive, mostra due nuove macrosezioni, Diaspora Activism e Gender Disobedience, dove il tutto assume la forma di una macchina pre-filmica volta alla disobbedienza, dove la lotta LGBTQI+ si intreccia ai processi migratori transnazionali. Omar Mismar, artista libanese, sonda l’intreccio tra arte, politica ed estetica del disastro. Con Two Unidentified Lovers in a Mirror mostra un’immagine esplicita di un bacio gay, un’immagine chiara della vita queer oltre i limiti, ritenuta innaturale in Libano e in molti altri stati. Tuttavia, il bacio diviene politico non tanto per ciò che mostra, non è la sua matericità a dargli importanza, bensì per ciò che cela, o meglio, che esplica, ossia un bigottismo sovranazionale che crede ancora nell’innaturalezza di un bacio. I corpi si mescolano e i ritratti pure. Nella sezione dedicata ai ritratti, Nucleo Storico: Italiani Ovunque – Italians Everywhere, le storie si intrecciano e quei volti esposti collegano vite lontane. Attraversando lo spazio è possibile imbattersi in Aligi Sassu, pittore e scultore antifascista, con l’opera Tobiolo (1965).

Aligi Sassu, Tobiolo , 1965. Ph. Marco Zorzanello. Courtesy: La Biennale di Venezia

Sassu colloca i suoi soggetti davanti a una baia e suggerisce una relazione intensa ed eroticamente ambigua, che lega una figura più adulta e Tobia. Gli uomini rossi evocano un regno mitico, sospeso e atollo. Si racconta di un’atmosfera senza tempo, vissuta solo da corpi nudi, privi di giudizio e macchiati dalla storia. Ahmed Umar racconta le proprie radici sudanesi e incarna storie queer di migrazione musulmana. Con Talitin – The Third (2023), mette in scena, con una video performance, una danza nuziale sudanese. Interpretando la sposa, che deve esibire la propria bellezza e ricchezza, riposiziona il corpo. Talitin, ovvero terzo in arabo, allude a un insulto locale diretto ai ragazzi interessati alle cosiddette attività femminili. Umar espande il corpo, il concetto di esso, e valicando la dualità eteronormativa diviene altro. Sabelo Mlangeni richiama l’attenzione sulla vulnerabilità. Rifiutandosi di mostrare la violenza rivolta alla comunità LGBTQI+, i lavori che espone, Country Girls (2003-2009), Black Men in Dress (2011) e The Royal House of Allure (2020), mostrano persone queer in situazioni di totale relax, riposo e divertimento in luoghi spesso estremamente minacciosi. Royal House of Allure, ad esempio, è il nome di una casa rifugio LGBTQI+ a Lagos, in Nigeria, e l’artista mostra come sia possibile uscire dalla norma.

Sabelo Mlangeni. ph. Andrea Avezzù Courtesy La Biennale di Venezia

La narrazione queer aumenta nel padiglione centrale, i corpi diventano fluidi e le vite si intrecciano con altre. Tutto appare “queer”, persino ciò che non lo è, le alterità si combinano e le sussistenze diventano più ampie. Lo spazio assume l’estetica di un battuage estetico, dove i corpi sono le opere e gli sguardi le stanze. Miguel Ángel Rojas, con le fotografie di El Negro (1979), inquadra un cerchio nero, un buco, uno spioncino della curiosità. Si mostrano immagini sfocate di un uomo, catturate attraverso un foro nella porta del bagno del Teatro Mogador, un cinema nel centro di Bogotá in cui avvenivano incontri intimi. I corpi diventano anonimi, interrotti, ma generano una curiosità nell’osservatore, che acquista subito una posizione di voyeur. Dean Sameshima documenta le sale cinematografiche per adulti di Berlino per creare la serie Being Alone (2002), per la quale fotografa di nascosto figure solitarie. L’artista rivela le sfumature del cruising e l’azione anonimizzante del corpo. In tutti gli spazi i corpi nudi si mostrano, danzano, ballano, pescano, nuotano, dormono e sono catturati in ogni azione quotidiana. Il nudo queer diviene politico per il solo fatto di esserci. Diviene politico perché è politico il contesto, perché è un mostrarsi quotidiano, non più estraneo. La vita queer entra e si mostra nella sua più banale quotidianità, tale da essere rivoluzionaria e dissacrante. Louis Fratino è un artista i cui dipinti e disegni del corpo maschile e degli spazi domestici catturano l’intimità e la tenerezza della vita quotidiana queer. Non sono più entità outsider, lontane, ma sono corpi palesi nella vita di ogni giorno. Ecco allora i corpi di Filippo de Pisis, nudi, sensuali, ambigui. Oppure ecco le metafore visive di Bhupen Khakhar, dove i corpi non fanno null’altro che mostrarsi. Bisogna perdersi, serve vivere lo spazio centrale con estrema fluidità perché sono le giustapposizioni di immagini, i ricordi e le visioni che generano divinità polimorfe. Le video-installazioni di Gabrielle Goliath esplorano le strutture quotidiane che preservano gli ordini patriarcali, razziali e coloniali. Mostrano storie di ogni giorno che hanno a che fare con la violenza e i traumi generati da omofobia, transfobia e razzismo. Il tutto diviene un riposizionamento della quotidianità e un invito a riflettere sui privilegi che ognuno di noi possiede.

Dean Sameshima. Ph. Matteo de Mayda. Courtesy: La Biennale di Venezia

Sarebbe impossibile parlare di ogni singolo artista, opera e identità, invece possiamo soffermarci a riflettere, silenziare i giudizi estetici e porci delle domande. Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere è una presa di posizione, un tentativo elegante, raffinato e pulito di fare critica. L’azione politica e profanatoria di questa biennale sembra essere il suo carattere leggero, o meglio quotidiano. Tutto diviene queer, perché ogni singola cosa è queer, perché mostra una totale assenza di stranezza. Tutto è strano per quelle persone che per definirsi hanno bisogno di mura e confini, nulla è strano, né diverso, se si oltrepassano geografie e si guardano quotidianità altre. L’arte priva di politica è solo decoupage, ma l’arte politica, queer e straniera genera invidia ed estraneità solo per coloro i quali non sono disposti ad aprire lo sguardo sul ventaglio dell’essere.

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