Straniero, aggettivo e sostantivo maschile; appartenente a un altro paese, popoli stranieri; una lingua straniera; riferito a persone, cittadino di uno stato estero. Alludendo a un’invasione o dominazione da parte di altri popoli o paesi, il termine acquista un’intonazione ostile (essere sotto il dominio straniero) che si accentua in modo particolare nel singolare con valore collettivo “cacciare lo straniero”; e ancora, estraneo, strano. Questi i significati che ci appaiono alla nostra ricerca sull’aggettivo Straniero, aggettivo chiave e chiave di lettura, sul quale ruota il concetto base del progetto ideato e realizzato dal duo collettivo femminista Claire Fontaine, fondato a Parigi e oggi di base a Palermo.
L’opera acquisita dal Museo Civico di Castelbuono è composta di tre sculture in neon in italiano, arabo e persiano e fa parte di una serie iniziata nel 2004. Tre iniziali lingue straniere che, oggi, nel suo totale ne comprende sessanta; non solo un insieme di lingue canoniche ma anche diversi idiomi indigeni, alcuni dei quali estinti e attualmente visibili in un’installazione alle Gaggiandre, all’Arsenale di Venezia.
Che cosa rappresenta per noi la visione di questo susseguirsi di lingue? Cosa rappresenta la lingua straniera per tutti noi? Un mezzo di comunicazione, ma al tempo stesso un mezzo che sottolinea il nostro essere stranieri nel mondo, il nostro essere estranei in un qualsiasi luogo che non sia il nostro luogo d’origine. Ci troviamo di fronte a un’antitesi per eccellenza, la lingua straniera, al tempo stesso unione ma anche separazione. Nessuno in modo diverso, nessuno in maniera maggiore o minore è più straniero dell’altro, in questo mondo sociale, culturale, politico che si base sul concetto dell’altro, con una accezione negativa da qualsiasi prospettiva la si guardi.
In questa situazione concettuale di emarginazione, ci rendiamo conto che tutti noi siamo emarginati al di fuori del nostro confine di nascita. “Costretti” a parlare una lingua che non ci appartiene per poter comunicare con l’altro. Nel momento in cui mettiamo piede in una terra straniera, la nostra lingua soccombe, ha la meglio la lingua della terra che in quel momento ci ospita. Sotto questa luce, la visione dell’altro, la visione di noi popoli colonizzati ed evoluti muta. Muta e cambia aspetto perché ai nostri occhi diventiamo noi stessi estranei, stranieri. E la sensazione di estraneità si lega a quella di paura verso l’ignoto, verso il non conosciuto, il non comprensibile. Soprattutto oggi che spesso ci sentiamo smarriti di fronte a un mondo governato da logiche non sempre comprensibili in cui coesistono diverse isole di appartenenza, diverse isole di cultura, una diversa dall’altra che convivono in un apparente equilibrio linguistico e culturale.
Questo progetto si posiziona perfettamente nella realtà effettuale e nel tempo in cui viviamo adesso in cui il concetto di straniero è all’ordine del giorno negli eventi legati alla guerra in Ucraina e in Palestina. Ma non solo, si inserisce pienamente nel ruolo civico che il Museo di Castelbuono si è proposto negli ultimi anni con la direzione della direttrice Laura Barreca, che così si esprime sull’acquisizione dell’opera: «si inserisce coerentemente negli indirizzi culturali del Museo Civico di Castelbuono, poiché arricchisce la collezione con un’opera di grande valore etico, espressione di una condizione di marginalizzazione individuale e collettiva insieme. Queste opere, per la loro potenza linguistica e la forza comunicativa intrinseca, offrono la rappresentazione di una contraddizione universale, e ci permettono, come istituzioni culturali, di sollecitare pubblicamente una riflessione ormai imprescindibile legata all’attuale caos politico internazionale».
Il duo collettivo Claire Fontaine così chiosa: «Chi arriva da altrove ci mette in contatto con la nostra ignoranza e ci restituisce un’immagine di noi stessi che non avevamo mai visto prima – l’immagine di noi come stranieri. L’ignoto può apparire minaccioso perché allargare i propri orizzonti equivale a perdere le proprie certezze che concepiamo come dei possedimenti materiali, che crediamo di poter accumulare stabilizzandoci così in un punto. Il legame con un luogo è vissuto come un’appartenenza, la “nostra” terra è legata alla proprietà privata immaginaria che è l’identità, nella sua variante specifica, quella nazionale».
Le scritte luminose sono di forte impatto e, in fondo, osservandole viene da pensare alla loro controparte, “fratelli ovunque”, così come proposto da Papa Francesco alla Biennale Arte 2024, e dunque fratelli ovunque come utopia?, sogno?, isola che non c’è?
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