È come calarsi in quel tempo in cui l’Italia era una meta imperdibile, l’obiettivo finale, del Grande Viaggio in Europa: il Grand Tour. Già dalla seconda metà del 1600, i ragazzi dell’aristocrazia europea erano spinti dalle loro famiglie a viaggiare per acculturarsi, confrontandosi con paesaggi diversi, imparando a conoscere la politica, l’arte e le antichità.
Questo ho pensato quando per la prima volta mi sono trovata faccia a faccia con la mostra “Taccuini Romani” esposta al Museo di Roma in Trastevere fino al primo marzo.
Nata da una felice intuizione della direttrice del Museo Silvana Bonfili, la mostra è un dialogo tra le piccole pitture di Diego Angeli (Firenze, 1869 – Roma, 1937) e le polaroid, piccole fotografie, di Simona Filippini.
A ben vedere poi, lui, Diego Angeli, è una personalità piuttosto eclettica: soprattutto giornalista, scrittore e critico d’arte.
Certo è che l’amore di Diego Angeli per Roma fu smisurato: la frequentava nei salotti e nei caffè, che nella seconda metà dell’800 continuano a rappresentare una vera e propria tradizione culturale. Gli scritti che ci lascia sono assai gratificanti per la Roma di quel tempo: “Si può dire che fra il 1800 e il 1850, tutto quanto l’Italia, la Francia, la Germania e la Russia produsse di più insigne nelle arti e nelle lettere si dette convegno nella piccola bottega oscura di via dei Condotti (ndr. L’Antico Caffè Greco). Vi furono sovrani come Luigi di Baviera e futuri pontefici come Gioachino Pecci; vi furono signori delle armonie come il Mendelssohn, come il Berlioz, come Riccardo Wagner, poeti come Giacomo Leopardi e come Minckievicz, romanzieri come Gogol’ e come Stendhal, patrioti come Silvio Pellico e come Caffi; pittori come il Delaroche e come l’Hébert; scultori come il Thorvaldsen e come l’Amici; umoristi come Mark Twain; eclettici come Massimo d’Azelio; filosofi come Schopenhauer. Vi furono i romantici con alla testa il Regnault e i Nazareni guidati da Overbeck”.
È in quell’atmosfera culturale della fine dell’800 e gli inizi del ‘900, che Diego Angeli percorre e ripercorre la città munito di cavalletto, carte, cartoni, a volte legno, per dipingere a olio delle piccole vedute. In mostra 76 piccoli dipinti, eseguiti tra il 1885 e il 1936, acquisiti dal Museo già dai primi anni ’90, ma ad oggi mai esposti.
Vedute in formato ridotto, poco più di una cartolina, che ci restituiscono una immagine molto intima di una città ancora spoglia di molte costruzioni, in cui la natura, i parchi e le rovine penetrano nel tessuto urbano.
Accanto a questa galleria pittorica ci troviamo di fronte ad un’altra galleria visiva, formata da polaroid, piccoli formati dai toni tendenti allo scuro, ma densi di punti luce, scattate da Simona Filippini, fotografa, che da molti anni lavora usando questo mezzo.
Il soggetto è sempre lo stesso: Roma. In questo caso, ovviamente, siamo di fronte alla Roma della fine del 1900, e inizio 2000. Sì perché, come Diego Angeli, anche Simona Filippini porta avanti questo lavoro da molto tempo, ad oggi ventisei anni, e chissà se lo considera finito!
Noi tutti sappiamo quanto i lavori eseguiti senza limiti di tempo, con lungo e lento respiro, portino in sé uno spessore e una profondità difficile da ottenere altrimenti. E questo continuo vagare per la città, dal centro alla periferia e viceversa, fermandosi, osservando, cercando l’atmosfera più adatta e i giusti colori, ci rimandano un insieme di visioni coerenti, e anche un po’ sorprendenti.
Ciò che appare è una città silenziosa, nonostante il suo reale caos, in cui le rovine, resti del passato sempre presenti nella Città Eterna, si trovano accanto alla multietnicità, alle insegne luminose, agli oggetti lasciati lì, per caso, da qualcuno che forse ritornerà. Tutto è intimamente riassunto nel piccolo formato della polaroid che ci costringe ad avvicinaci ad essa, ad essere quasi in un contatto fisico con essa.
Forse ciò che Simona Filippini vuole cogliere, a mio avviso riuscendoci, è il cuore della contemporaneità di questa città multi-sfaccettata dove il turismo di massa è lontano anni luce, non solo un secolo, da quello del Gran Tour, dove le speculazioni edilizie hanno fatto cambiare la direzione del ponentino, dove donne e uomini di diversa etnia puntano occhi spalancati in macchina, dove le tradizionali trattorie di Trastevere si adeguano alla contemporaneità con coperti da tavola fino poco tempo fa impensabili e dove non esistono più caffè letterari.
Le fotografie di Simona Filippini sono poi allestite come se fossero impaginate, pronte per la stampa. Troviamo cornici che comprendono una, due, a volte tre polaroid incastonate nello stesso passe-partout, mai seguendo la stessa geometria. Questa abilità di montaggio è stata eseguita da Chiara Capodici che ha curato la mostra di Simona Filippini e che ha anche curato insieme a Fiorenza Pinna la prima edizione cartacea di questo lavoro apparso nel 2014, edito da Camera21 con il titolo Rome LOVE.
Non è facile riuscire a far dialogare lavori così diversi nel tempo, nel contenuto e nel mezzo, ma in questo caso l’esperimento è ben riuscito: le vedute di Diego Angeli ci fanno ben capire da dove viene questa città e le polaroid di Simona Filippini formano un filo temporale che ci porta, inevitabilmente, in quel futuro che non vediamo, perché viviamo solo in un eterno presente solidamente poggiato sul nostro passato.
In occasione del finissage, il prossimo 1 marzo alle 17:30, reading dell’attrice Susanna Marcomeni su testi di Diego Angeli, Pierpaolo Pasolini, Igiaba Scego.
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