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Techno: un cambio “sintetico” di paradigma per Museion
Arte contemporanea
di Paola Tognon
Queste alcune tra le parole d’ordine che ci appaiono oggi quando varchiamo Museion a Bolzano: Detroit, USA, la fine degli anni 80, gli anni 90, Berlino, Londra, l’Olanda, il Belgio, l’Ucraina, la periferia, il millenium, la tecnologia, i free party, i rave, il post-industriale, l’automazione, i big data, la libertà, la compressione, l’esaurimento, la cultura LGBTQ, la rivoluzione Black, la techno con la c e la tekno con la k, le 3 rivoluzioni techno, i 120 battiti al minuto, la cultura urbana, la rivolta annegata, il tempo libero pressurizzato, il naufragio del XX secolo – a proposito dov’è finita la zattera? -; i freelance, la produttività accelerata, la nostalgia, gli spazi dismessi, gli spazi riassegnati, l’annegamento della memoria, la dis-illusione politica; il club, il clubbismo, il buio, il corpo collettivo, il flusso, le onde scure.
E dunque cosa c’entrano le arti visuali e Museion a Bolzano con la musica techno e la sua tessitura di loops da sintetizzatori e patterns ritmici affidati a uno o più drums-machine al tempo di 4/4, a una velocità di media inferiore ai 140 bpm? Cosa c’entra Bolzano con il trattamento digitale dei suoni, la predominanza delle percussioni e la ripetizione ossessiva di scarne figure ritmiche – armoniche?
Siamo davanti ad una ricerca sulla crossmedialità, interdisciplinarietà, mescolanza, annegamento e presa di fiato? No. Siamo spettatori un po’ disturbati di salti mortali, reenactment, ricerche criptiche, loop riattivati, archivi dimenticati, proteste riadattate, post post post, compreso il post-covid che non è tanto post e che sembra aver annullato, fra le sue tante eredità ancora non comprese, anche quella dei rave? No.
Forse il nuovo direttore di Museion – Bart van der Heide – soffre la nostalgia di momenti e movimenti di cui ha respirato le più recenti trasformazioni? Neppure questo, perché
TECHNO, la mostra di Museion a cura del nuovo direttore con la collaborazione di Francesco Tenaglia, Florian Fischer e Frida Carazzato, è più efficacemente una riflessione e un’analisi critica, un gesto simbolico-interpretativo da rabdomante sensibile, un percorso etico – politico, forse anche un po’ funambolico, che oscilla tra tempo recente e tempo futuro”.
Techno registra infatti un approccio critico di taglio innovativo che propone le arti visive come sistema di raccolta dell’interpretato e del vissuto. In questa direzione “la mostra” è anche l’avvio del programma Techno Humanities (2021 – 2023) con il quale Bart van der Heide si è presentato alla direzione di Museion segnandone un cambio di paradigma.
E nel frattempo nella mia mente si richiamano due riferimenti: il libro Il fondamentalista riluttante (2007) di Mohsim Hamid e la nota dichiarazione di Emma Goldman: “Se non posso ballare non posso far parte della tua rivoluzione.
Ma in sintesi “Techno” è soprattutto una mostra che ha come consegna l’offerta di ascolti, domande e riflessioni che derivano appunto dall’osservazione del presente attraverso la lente inedita della musica techno; un fenomeno occidentale per geografia, ma non per geo-politica, che ha investito 30 e più anni del nostro accidentato e frastagliato cambiamento economico e sociale. Musica techno che, nel progetto espositivo, è restituita nella sua ambivalenza di avversaria e complice dei modi di vita postindustriali e della cultura urbana.
La mostra è quindi un progetto fluido che mette in scena un pensiero curatoriale
capace di essere “contemporaneamente” laterale e centrale e che invade, come non succedeva da anni, l’intero edificio Museion coinvolto in format espositivi diffusi a cui si sommano infiltrazioni, letture, workshop e collaborazioni sul piano territoriale e su quello on-line e off-line (un interessante programma collaterale come nella progettualità con Isabel Lewis o in A Possible Archive nel passage del museo).
“Techno” si focalizza su tre temi che stanno dentro il marchio e la pratica techno – libertà, compressione ed esaurimento – ed esplora in quale misura i fenomeni culturali associati alla techno siano intrecciati al modo in cui sperimentiamo i nostri più attuali codici identitari, senza nulla lasciare di intentato tra commercializzazione e rivolte. In pratica ciò che viene indagata è soprattutto l’eredità di un fenomeno, sino ad oggi vissuto più che studiato, che viene interpretata e svelata in mostra da un nutrito numero di artisti, molti dei quali giovani e non così conosciuti nei tour istituzionali a cui siamo più abituati. Due elementi (l’eredità intesa come confluenza- appropriazione-digestione e i lavori di artisti che ci obbligano a osservare nuove traiettorie) che aggiungono interesse alla prospettiva “a lente techno” del progetto di Barth Van der Heide. Elementi che obbligano il visitatore a perdersi e ritrovarsi nei 3 nuclei tematici che ne costituiscono l’ossatura critica ma anche riflessivo-poetica. Si aggiunga infine che la mostra offre anche uno sguardo privilegiato sulla scena techno in Alto Adige e a Bolzano, un sito – miniaturizzato ma esemplare – di sviluppo post-industriale. Ed in effetti, chi potrebbe o vorrebbe oggi ri-ascoltare l’anima passata della città, fatta di acciaio, alluminio e produzione energetica, rispetto anima all’attuale, terziaria e turistica, della “ridente” cittadina dolomitica?
Il consiglio è quello di non perdersi la mostra e le sue “collaterali” per muoversi senza paura sull’eco identitario delle percussioni techno dell’intero progetto. Pronti ad accogliere le opere e i progetti di Paul Chan, Nicolò Degiorgis, Karin Ferrari, Massimo Grimaldi, CC Hennix, Tishan Hsu, Mire Lee, Ghislaine Leung, Piero Martinello – in collaborazione con Franco Ruaro – , Sandra Mujinga, Nkisi aka Melika Ngombe Kolongo, Emeka Ogboh, Yuri Pattison, Daniel Pflumm, James Richards e Steve Reinke, James Richards, Jacolby Satterwhite, Leander Schwazer, Sung Tieu, Jan Vorisek e, ancora una volta, l’opera Morestalgia (2019) di Riccardo Benassi che, dalla stazione ad alta velocità di Bologna, con lo stesso mood, ci tele-trasporta a Bolzano.