In un presente statico dell’arte figurativa, Chiara Baima Poma ci mostra come la vera inventiva risieda nel passato. Un passato mitico fatto di proverbi che si configurano, se immaginati letteralmente, come universi mistici. Un passato che guarda ai grandi maestri della pittura come forieri di una realtà che cancella la distinzione tra sacro ed umano.
Abbiamo intervistato Chiara per la nostra rubrica The Underground.
Quali sono i temi prevalenti che si intrecciano nei tuoi lavori?
La voglia di riscoprire le mie origini e il linguaggio del racconto sono infondo i temi principali delle mie opere, che si fondono assieme e creano una sorta di passato parallelo. il fascino verso una cultura popolare di base italiana ma che poi sfiora e si lascia influenzare da usi e costumi altrui è per me un modo di riallacciarmi alle origini ma allo stesso tempo rimescolarle rendendole solo mie, e quindi irreali, idealizzate e falsate…credo in fondo sia una sintesi tra fascino per qualcosa a cui non si fa più parte e allo stesso tempo incapacità di farne parte…. È una strana sensazione che provo anche nei confronti dell’Italia, una sorta di volere ma non potere, io amo immensamente l’Italia ma allo stesso tempo non riesco a viverci per lunghi periodi. Per questo i miei lavori sono sicuramente anche il prodotto di uno senso di inadeguatezza nel mondo, nelle mie opere tendo a ritrarre il mio luogo perfetto, un luogo-rifugio, dove realtà e immaginazione si mischiano e ieri e oggi non hanno distinzione.
Nelle tue opere troviamo un’estetica che ha il sapore dei grandi maestri del gotico e del primo Rinascimento come Giotto, Simone Martini, Paolo Uccello e Giovanni da Milano, ti va di parlarci di queste influenze?
Mi sono innamorata poco a poco di questi artisti…non saprei nemmeno dire quando esattamente, credo però vada di pari passo con la nostalgia per l’Italia che viene quando si viaggia per parecchio tempo. Quando vivevo in Italia davo per scontato le grandi opere e bellezze artistiche che ospitiamo e di cui abbiamo la fortuna di essere circondati, poi il rientro in Italia, anche se transitorio, è stato per me una epifania. La riscoperta di questi grandi artisti mi ha aiutato a centrarmi in un periodo dove stavo ancora cercando e come se mi avessero guidata verso quella che oggi ritengo sia la mia identità artistica, il mio stile personale. Ciò che più mi affascina degli affreschi dell’epoca gotica e inizio rinascimentale è la descrizione di un mondo che mischia il reale di tutti i giorni con l’intangibile immaginario della religione e che vede la necessità di raccontare delle storie che sono rivolte a tutti, adulti in particolare…nelle opere di Giotto, Simone Martini, Pietro Lorenzetti e tanti altri, la narrazione della storia e l’estetica si fondono in un solo linguaggio ed è appunto questo a cui mi rifaccio nelle mie opere, raccontando però le mie storie, adattandole ai miei personaggi.
Ammirando le tue opere pare davvero che, come affermava Albert Einstein “la distinzione tra presente, passato e futuro è solo un’illusione ostinatamente persistente”. Come definiresti la rappresentazione del tempo nella tua arte?
Effettivamente nelle mie opere il tempo non è affatto una linea retta, è addirittura difficile scindere passato da presente. Il mio è un terzo tempo che nasce dall’unione di azioni e personaggi odierni con trame, contenuti di un passato idealizzato, probabilmente mai esistito. I miei lavori sono ambientati in una sorta di universo parallelo fatto di elementi passati visti da uno occhio contemporaneo che quindi creano una sorta di ambiente/sogno un po’ fantastico, una mia personale identità culturale dove mi sento a mio agio e a cui vorrei appartenere.
La tua originale serie Modi di dire racconta un’Italia immaginaria ed idealizzata fatta di proverbi che risuonano come moniti nelle nostre menti, fin da quando siamo bambini. Ti va di raccontarci di questa serie?
Modi di dire è il mio omaggio a un bagaglio culturale che spesso diamo per scontato e non ci rendiamo conto di come i proverbi e i modi di dire facciano parte del nostro linguaggio di tutti i giorni. Sono in fondo dei racconti, spesso degli insegnamenti tramandati per forma orale ed è per me affascinante come non siano affatto spariti, ma appunto presenti fin da quando siamo bambini. La nascita di “modi di dire” come serie nasce sia dalla volontà nel mettere in luce qualcosa di complesso che si mostra con semplicità ma anche dalle svariate possibilità di “gioco estetico” a cui si prestano; ovvero, ciò che più mi interessa non è rappresentare il significato dei modi di dire in sé, ma piuttosto prenderli alla lettera creando così scenari assurdi e illogici che trovo estremamente pittorici.
Nella tua vita il viaggio è stata una costante: quanto ha influito sulla tua poetica artistica? La composizione e l’ideazione dei tuoi soggetti è per te una forma di catarsi?
Beh il viaggio per me è ed è stato sia un arricchimento che un ostacolo, il fatto è che quando viaggiavo ero molto più discontinua nella pratica, in più ero obbligata a formati e tecniche più “portatili”, quindi molti limiti. Ero si, molto stimolata da ciò che mi circondava dato che ho sempre provato una grande attrazione per i costumi delle culture altrui oltre che a quella italiana. A tratti tutti questi stimoli erano quasi paralizzanti, mi rendo conto solo ora che il viaggio per me è stato un accumulo di idee quasi un lavoro di archivio inconsapevole, ed ora che la mia pratica è più costante e stabile riesco ad attingere da questo archivio e mischiare i colori, le forme del viaggio al mio immaginario interiore nelle mie giornate in studio. Non so se la descriverei come una catarsi, è piuttosto il rendere fisico, tangibile qualcosa che prima era solo un’idea e quindi volubile, è fermare l’idea che altrimenti continuerebbe a mutare e a sfuggirmi. È passare da astratto a corporeo. La sensazione di possedere un’idea e vederla crearsi davanti ai miei occhi è estremamente appagante, specialmente mentre è in corso d’opera, effettivamente c’è una componente catartica in questo: nel momento in cui la finisco ne perdo d’ interesse nonostante mentre la stessi dipingendo non aspettassi altro che vederla terminata.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Progetti per il futuro: tante idee, a volte difficile metterle tutte in pratica. Innanzitutto la serie modi di dire ha così tante fonti che è difficile esaurirla; poi mi piacerebbe lavorare a delle collaborazioni con altri artisti e illustrare storie dove ogni capitolo viene assegnato a un artista diverso e creare cosi un racconto dove lo stile e l’estetica cambia col susseguenti del racconto; poi, ancora, mi piacerebbe lavorare sul 3D e ispirandomi alle case delle bambole che da bambina improvvisavo con le scatole di scarpe ricreare gli interni che già spesso dipingo nelle miei quadri e abitarli dai miei personaggi in versione statuette. Poi ancora incomincia ad attirarmi sempre più la scultura, magari l’argilla… o statue di cartapesta…chissà…
Chiara Baima Poma, classe 1990, ha frequentato l’Accademia Albertina Di Belle Arti diplomandosi nel 2010. I temi prevalenti che si rincorrono nelle sue opere sono il senso di identità e l’attrazione per forme ancestrali e spirituali come il mito, la favola e le religioni. Nel 2013 espone la serie Portraits presso Lentil As Anything di Melbourne enel 2016 la serie Fried Chicken presso Pacific Social Club di Londra. La sua voglia di viaggiare la porta in giro per il mondo in una ricerca di identità senza fine che conferisce alle sue opere linfa sempre nuova. Attualmente risiede nelle Isole Canarie.
“Il passato è come una divinità che quando è presente tra gli uomini salva tutto ciò che esiste”. Platone, Le Leggi, VI.775
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