L’idea è di entrare, ma per un attimo quel mix accecante tra bianco assoluto e flash arancio fluo ti tiene lì, appeso alla soglia. Passata la porta, e abituati gli occhi soprattutto, la situazione si ribalta. E il bianco – quello della Pinksummer – ti accoglie in un’altra dimensione; e il fluo – quello delle sculture-silhouette in legno posizionate da Tobias Putrih (1972) – diventa un filo conduttore che ti lega alla scena in atto.
Eri appeso e sei già entrato a far parte del gioco, unito ad un gruppo; una folla compatta, che pare una versione ambientale de il Comizio di Giulio Turcato. E invece sono gli Internal Affairs di Putrih, racconto concreto di una voglia di futuro quanto mai astratta in terra slovena; di un periodo storico, fissato nei primi anni Cinquanta, e della politica “non allineata” portata avanti da Tito nella ex-Jugoslavia. E di un artista che in Slovenia c’è nato.
Dalle premesse, Internal Affairs non può essere un assolo autoreferenziale. E questo pure se Tobias s’inserisce alla grande, riproponendo direttamente dagli anni Novanta una grossa scultura improntata sullo sviluppo di una plasticità orizzontale (con un movimento di volumi che fa molto Giuseppe Spagnulo). Un mezzo-cameo nella sua stessa personale, con una scultura – guarda un po’ – colorata proprio nell’arancio fluo che tanto “sparava” all’inizio. Ora tutto torna.
Quell’autocitazione alla fine è un tassello, parte di una circolarità; di una divisione cooperativa dei materiali utili al racconto, allo scopo di renderli singole condizioni necessarie e sufficienti in un’immediata percezione di comunità. Tobias s’infila in una percezione di appartenenza, che è qualcosa di esplicabile solo nella poliedricità di elementi legati l’uno all’altro, come diversi l’uno dall’altro. In quelle sculture univoche, concepite tuttavia con una percezione unitaria nella diversità dei loro basamenti e delle loro forme, in mezzo a spigoli e curve, superfici levigate e grezze. Figuranti, a cui Putrih ha dato il compito di prospettare la storia nella realtà dei fatti.
Storia che va restituita quindi senza romanzare, come un valore assoluto incluso nelle immagini d’archivio che l’artista si è pazientemente selezionato. Nonché attaccato alla scena, avvitando su legno lastre da stampa offset, paradigma di una processualità “non finita”; che da sole restituiscono tutta la precarietà di quei momenti, quando donne e uomini pala alla mano collaboravano alla costruzione di un futuro comune.
Anima distinta della stessa personale, per volere di Putrih ci riferisce Francesca Pennone di Pinksummer, i collage occupano un angolo a parte. Tre elementi – cartone, cordoncino e pennarello – separati dalla fase installativa della mostra, ma che come quella danno effetto oggettuale a un sentimento di condivisione/interdipendenza: sagome del più classico cartone da pacchi sovrapposte, sul cui marrone spicca il nero di un cordoncino, elemento di raccordo tra le parti.
Un fil noir che ancora una volta lega. E preme anche sull’effetto trompe l’oeil dato dalle righe nere a pennarello, che quasi “radiografano” il cordone, creando un habitat naturale per quel “detto e non detto” tipico dell’azione mai strillata di Putrih. Che da ultimo ti stende con quei nodi, apice simbolico di tutta l’impalcatura, tanto delicati che potrebbero pure sciogliersi. Tanto delicati da metabolizzare un rapporto permanenza/impermanenza tipicamente alla Putrih.
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