06 settembre 2019

TOMAV arde con il “foco” di Giovanni Gaggia e Leopardi

di

Giovanni Gaggia parte da echi leopardiani, per la sua ultima mostra alla Torre di Moresco

Un'opera di Giovanni Gaggia in mostra a TOMAV
Giovanni Gaggia, Unus Papilio Erat, 2019

Cosa si vede dall’alto della torre? Il paesaggio disteso potenzialmente oltre i confini dello sguardo ma anche ciò che solitamente è eclissato all’interno del nostro spirito, nella nostra mente. Da questi echi leopardiani è partito Giovanni Gaggia, artista, performer e fondatore dell’Associazione Culturale Casa Sponge, le cui opere sono in esposizione per “Ch’arsi di foco”, mostra a cura di Milena Becci, visitabile fino all’8 settembre negli spazi di TOMAV – Torre di Moresco Centro Arti Visive. L’esposizione di Gaggia chiude il programma 2019 del Centro diretto da Andrea Giusti, iniziato da maggio con gli interventi di Maurizio Cesarini, Angelo Iodice, Renzo Marasca e Luca Piovaccari.

In questa occasione, Gaggia ha omaggiato Giacomo Leopardi, di cui quest’anno si festeggiano i duecento anni della stesura dell’Infinito, una delle liriche più conosciute della letteratura non solo italiana, scritta negli anni della sua prima giovinezza, nelle Marche. Era il 1819 quando, in cima al Monte Tabor, colle di Recanati che si scorge dall’ultimo piano della torre, Leopardi trovò l’ispirazione per descrivere la pace, il silenzio e la libertà rara di poter vagare con la mente.

Giovanni Gaggia, Sconfinare altrove, 2019, corda e ceramica, dimensioni variabili

Per la sua mostra negli spazi di TOMAV, Giovanni Gaggia parte dalla relazione empatica con il territorio, per esplorare le tendenze solo apparentemente opposto dell’universalità e della individualità, in un percorso caratterizzato da forti tracce materiche, tra il rosso del sangue e il giallo dell’oro, cariche di una profonda cifra simbolica e spirituale. Riprendendo parte di un verso tratto da Il primo amore, che occupa una posizione cruciale nel sistema dei Canti, l’artista ha ricamato su un arazzo la frase “Ch’arsi di foco”.

Giovanni Gaggia, Ch’arsi di Foco, particolare dell’opera, 2018

E poi disegni, piccole sculture in ceramica, corde intrecciate e moschettoni e voci che, registrate nel corso di una residenza di Gaggia a Buonalbergo, rispondono a una domanda: «qual è stata la prima cosa bella che hai avuto dalla vita?».

«Come le mani che ricamano la stoffa, il sangue appare sul foglio marchiato da un cuore pulsante di un animale. Torna, come il ricordo emerso dall’interrogativo, il muscolo cardiaco in ceramica bianca, con venature dorate che sono l’essenza, il primo amore rimasto impresso all’interno di ognuno. Il rosso lascia spazio alla purezza, si sposta in dimensioni oniriche che attraversano tutto il corpo per approdare vigili in due dei piani della torre. Spiritualità, emotività e moralità insite nell’essere umano sono racchiuse in una forma che lega due metà e di cui alcuni ne hanno ritrovato l’origine nei geroglifici egiziani, nel simbolo derivato dal seme del silfio, pianta africana da molto tempo estinta e a lungo utilizzata a causa delle sue proprietà mediche», ha scritto Milena Becci nel suo testo critico.

 

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