È Daniele Costa il vincitore del Premio Lydia! 2021 della fondazione Il Lazzaretto. Il Premio, dedicato alla memoria di Lydia Silvestri, scultrice, allieva di Marino Marini, che ha insegnato in importanti Accademie, come la Bath Academy of Art in Inghilterra, a New York e Hong Kong e l’Accademia di Brera, e partecipato a numerose mostre personali e collettive, ha lo scopo di sostenere i talenti emergenti in Italia. Dopo la selezione del progetto vincitore il premio si sviluppa, inizialmente, in un percorso di mentorship e incontri, i cosiddetti Salotti, per la produzione dell’opera e, infine, nella sua presentazione durante il “Festival della Peste!”. La giuria, composta da da Claudia D’Alonzo, Linda Ronzoni, Alfred Drago, Beatrice Oleari e Gianni Moretti, e presieduta da Adrian Paci, il quale sarà anche il menthor del vincitore durante la produzione dell’opera, spiega che «dalla candidatura e dal colloquio con Daniele Costa è emersa una capacità espressiva molto consapevole, capace di raccontare in modo chiaro i rapporti tra soggettività e contesto, anche nelle implicazioni politiche, sociali ed emotive.» Ce ne parla l’artista.
In cosa consiste la tua proposta per il bando Lydia della Fondazione Il Lazzaretto?
Il progetto si chiama Trapezia ed è nato l’estate scorsa a seguito del primo lockdown, periodo in cui ho cercato di estraniarmi perché non riuscivo bene a capire cosa stava succedendo. Stavo finendo il mio ultimo lavoro, il video X, che ho presentato a luglio al “Lago Film Fest”, dove avevo organizzato un incontro con curatori tra cui Caterina Benvegnù, Carolina Gestri, Nicolas Ballario e altri. Tra loro c’era anche La Trape, nickname di Trapezia Stroppia, che è una drag queen del Toilet club di Milano, performer, “ragazza di Porta Venezia” e manifestazione altra di Aurelio. Da lì ci siamo conosciuti e ho iniziato a seguirla su Instagram. La Trape fa dei video al limite tra il tutorial ironico e la performance di fronte al telefonino. Dopo il progetto X, che rifletteva sul confine tra l’io intimo e il luogo in cui la persona esiste, mi si presentava davanti la possibilità di indagare la figura de La Trape e di come questo momento pandemico le abbia permesso di far nascere, durante il lockdown, una serie di dirette e video su Instagram sullo sconfinamento tra la “segregazione” in casa e la volontà di esibirsi, di manifestarsi, di essere. Abbiamo parlato molto e mi ha fatto capire che i video che fa sono nati come una sorta di spinta per uscire dalla sofferenza della solitudine. Da qui ho iniziato a cercare di capire se riuscivo a tratteggiare, ricalcare un’immagine che partisse dalla Trape, da Aurelio, e che riflettesse sul genere, su performare se stessi, per se stessi e per gli altri, ma allo stesso tempo che facesse riferimento in qualche modo a tutto quello che è stato il momento pandemico.
Come intendi lavorare su questo progetto?
Il progetto si basa sulla volontà di stare per un periodo con lei, abitare con lei. L’idea è di creare un doppio canale in cui da una parte la sua stanza diventa il set dove si esibisce e dall’altra, una volta spenta l’esibizione, ci sia una sorta di ritratto intimo, più personale. Mi immagino una parte in cui le chiedo di esibirsi e di mettersi in scena davanti a me. Le riprese si serviranno di strumenti come webcam e inquadrature grandangolari per ridisegnare lo spazio. Sto anche sperimentando la fototrap, una videocamera a infrarossi che viene usata per la selvaggina e che verrà attivata da La Trape, quando io non ci sono, con una modalità più da video sorveglianza. Quindi, di fronte alla camera da presa la Trape si esibirà e, attraverso il video Safari con la Trape, ci farà esplorare luoghi remoti, accessibili con l’immaginazione e l’animazione 3d, approfondendo quella modalità di sconfinare, di andare oltre, di cadere in qualcos’altro che non si sa, mentre nella parte non performativa il video cercherà di far emergere il suo privato attraverso elementi intimi del quotidiano. La Trape si è buttata in questo progetto in modo molto sentito, come se avesse veramente il bisogno di farlo. C’è l’esigenza di parlare e di venire fuori che, consciamente o no, dipende da questo periodo. Nei miei lavori quello che mi piace è tessere una sorta un humus, una relazione che vada oltre il lavoro.
Cosa ne pensi del tema della Peste? Come lo hai declinato nella tua proposta?
Inizialmente mi ero fatto un po’ intimorire dalla parola Peste, perché non è una parola facile. Ma, quando ho letto bene il bando, mi sono accorto che ciò che si apriva era un tema molto ragionato, consapevole e non banale. Ho lavorato, quindi, soprattutto con la duplicità nella relazione, ad esempio, tra scontro/incontro, dentro/fuori, privato/pubblico, intimo/superficiale, e tutti questi campi di relazione, che sul progetto che ho presentato emergono in maniera limpida, secondo me sono la chiave della tematica che la fondazione ha posto per il premio. Mi sono focalizzato sullo sconfinamento come pratica performativa, sull’idea di performare se stessi, sul limite di dove abitiamo e di ciò che accade verso l’esterno. Abbiamo vissuto una ri-mediazione spaziale di quello che è il nostro concepire il quotidiano, le pareti sono diventate cinema e le case contenitori. La drag nella sua preparazione, diventa. E nel diventare, performa. Quel performare, che prima era atto a poi esibirsi all’interno di un club, adesso diventa un atto che vive all’interno dello stesso luogo, sempre per sconfinare, ma in una modalità completamente diversa.
In che modo questo progetto si inserisce nella tua ricerca artistica?
Io non so mai se faccio dei film, dei cortometraggi o se lavoro come documentarista, non me lo chiedo mai. Nel senso che non mi interessa chiedermi qual è il mio segnaposto preferito. Ma in una bellissima intervista i Masbedo dicevano una cosa in cui io mi rivedo molto: io parto da degli spunti visivi e questi spunti visivi mi portano poi all’interno di una visione. Su questa visione possono nascere delle narrazioni, oppure può prevalere una modalità visiva. C’è sempre stata la consapevolezza di registrare per un determinato tempo un qualcosa che accade, di fissare un punto e provare a starci dentro finché quell’immagine ai miei occhi non diventava il più compiuta possibile. Anche se incompiuta di per sé, perché il tempo è una cosa difficile da tratteggiare perché si perde. Anche nel progetto con La Trape non c’è l’idea di tratteggiare una documentazione perfetta, ma partire dallo spunto visivo dei video che lei fa. Poi c’è una parte che io non vedo, non so, non conosco che fa parte del momento che accade e che non posso sapere in anticipo.
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