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Tre artisti italiani per Under the spell of Africa: il racconto del progetto
Arte contemporanea
Si ritorna sempre in Africa, in qualche modo. In effetti, il cerchio si chiude, visto che l’umanità sembra essere nata da quelle parti, su per giù. Anzi, possiamo rintracciare con una discreta precisione la nostra culla: un’area fossile estesa su 474 chilometri quadrati, a circa 50 chilometri a nord-ovest di Johannesburg. Qui, nel 1947, fu rinvenuta Mrs. Ples, il più antico fossile di Australopithecus africanus, risalente a 2,3 milioni d’anni fa. Numeri da brividi, vero? A proposito di grandi cifre, l’Africa è uno spazio enorme, composto da 54 Paesi diffusi su una superficie di 30.244.050 chilometri quadrati. E alcune tessere di questo enorme e complesso mosaico ha provato ad assemblarle Under the Spell of Africa, progetto curatoriale di Adriana Rispoli, promosso nell’ambito del programma Italia Cultura Africa del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Tre gli artisti italiani invitati a realizzare progetti site specific in altrettante grandi città africane, attraversando i “punti cardinali” del Continente, a ovest, est e sud, incontrando associazioni, persone, ambienti. E riportando un po’ di quel mal d’Africa anche dalle nostre parti. Ci dice di più Adriana Rispoli.
Under The Spell of Africa sarà un lungo viaggio, insieme ad artisti e istituzioni dell’arte e della cultura. Da Raffaela Mariniello in Costa d’Avorio, ad Eugenio Tibaldi allo Zoma Museum di Addis Abeba, Etiopia, fino a Flavio Favelli all’International Public Art Festival di Cape Town, Sud Africa. Come hai individuato e messo in dialogo luoghi e persone?
«Su invito del Ministero degli Esteri nell’ambito del programma Italia Cultura Africa ho costruito il progetto nell’arco di circa sei mesi nei quali ho messo a punto un programma basato su residenze di artisti. Ho invitato gli artisti in base alla rispondenza della loro ricerca e metodologia di lavoro con i paesi e i luoghi che li avrebbero ospitati e per le capacità di ognuno di loro di lavorare site-specific e in ambiti fortemente caratterizzati culturalmente.
I contesti in cui gli artisti stanno interagendo sono stati selezionati per la corrispondenza con gli obbiettivi del progetto Under the spell of Africa che si basa su un principio di scambio e di osmosi tra le nostre culture attraverso lo strumento visionario dell’arte con l’obbiettivo di generare una contaminazione bilaterale tra gli artisti invitati e i territori su interagiscono attraverso un rapporto diretto con le realtà locali, artistiche e non, mediato e coordinato dalle istituzioni diplomatiche italiane».
Raffaela Mariniello, a seguito di una residenza presso l’Ambasciata italiana di Abidjan, ex Capitale della Costa d’Avorio, ha presentato “Natura Cultura Artificio”, negli spazi della Foundation Donwahi. Puoi parlarci di questo progetto? In che modo si è sviluppata la vostra collaborazione con la Foundation Donwahi?
«L’interesse di Raffaela Mariniello sulla contaminazione tra il paesaggio naturale e quello urbano attraverso il passaggio dell’uomo ha trovato nella città portuale di Abidjan un terreno molto fertile che ha condotto dopo circa venti giorni di residenza ad una mostra fotografica accompagnata dalla proiezione del materiale di back stage. Le parole chiave del titolo trovano riscontro nelle immagini del Parco Nazionale di Banco, immensa area verde di foresta pluviale proprio in città, nell’imponente porto che ingombra gran parte della laguna cittadina, e in uno dei più affascinati palazzi dell’antica capitale ivoriana Grand Bassam – abbandonata negli anni 20 per un’epidemia ed oggi patrimonio dell’Unesco – in cui la natura si è appropriata silenziosamente di ciò che resta delle antiche architetture coloniali.
Ma l’immagine più rappresentativa di quest’esperienza è, a mio avviso Lavanderia di Banco in cui un uomo dalla fierezza totemica campeggia al centro di una radura adiacente al fiume tra panni colorati, un luogo noto come la lavanderia più grande d’Africa. L’artista, che ha ravvisato in quest’immagine un parallelo con la Venere degli Stracci, icona dell’Arte Povera italiana, ha allestito l’immagine come un wallpaper per donare una sensazione immersiva agli spettatori proprio all’ingresso della Fondazione Donhawi uno dei più prestigiosi spazi dedicati all’arte contemporanea che propone contestualmente mostre di artisti di origini africane.
Molto stimolante è stato inoltre il dibattito pubblico sulla fotografia contemporanea svolto nella serata inaugurale insieme ad Ananias Leki Dago, fotografo che quest’anno rappresentava la Costa d’Avorio alla Biennale di Venezia, e che con la Fondazione Donwhai ha avuto un lungo rapporto di collaborazione».
Cosa vedremo per i prossimi progetti di Tibaldi e Favelli?
«Eugenio Tibaldi sta lavorando già da settembre 2019 ad un impegnativo progetto per lo Zoma Museum di Addis Abeba in Etiopia. Fondato nel 2018 da Elias Sime, tra i più interessanti e noti artisti africani degli ultimi anni e dalla curatrice antropologa Meskerem Assegued, lo Zoma è un grande progetto di osmosi tra arte e natura in cui artisti internazionali sono invitati a dare il loro contributo per la progettazione di ponti che collegheranno i vari canali che lo attraversano.
L’operazione che Tibaldi sta portando avanti in collaborazione con il museo e con l’Istituto Italiano di Cultura di Addis Abeba è un manifesto del suo modus operandi in cui arte, architettura e design legati ad una approfondita riflessione sul territorio, dalle tecniche edilizie ai materiali – tutti di riciclo – sfoceranno nella costruzione di un’”installazione informale-funzionale”, un ponte simbolo di attraversamento, ma sostenibile e ludico, accompagnato da una mostra che evidenzierà i vari passaggi del progetto.
Flavio Favelli invece sta preparando una grande wall painting che farà parte dell’International Public Art Festival di Cape Town, Sud Africa. Giunto alla sua quarta edizione quest’importante evento sudafricano, che vede la partecipazione di 20 artisti internazionali e a cui l’Italia prende parte per la prima volta grazie al sostegno dell’Istituto Italiano di Cultura di Pretoria, è un riuscitissimo esempio di rigenerazione urbana che coinvolge un intero quartiere cittadino, Salt River. Gli interventi artistici permanenti sono realizzati su grandi facciate di edifici residenziali coinvolgendo direttamente gli abitanti nel processo di sviluppo del lavoro sfociando in definitiva anche in una grande operazione di arte partecipativa. Collegandosi per contrasto con il tema di quest’anno, la digitalizzazione, Flavio sta progettando un intervento interamente realizzato a “pennello” che attraverso la ripresa dei loghi dei beni di consumo sudafricani riflette sulla globalizzazione.
Inoltre, per le mie esperienze curatoriali nello spazio pubblico e con le comunità a cui risponde lo stesso progetto di Favelli, sono stata invitata a partecipare al public program della Cape Town Art Fair che si svolgerà a febbraio nell’ambito del talk “Museums in the 21st Century”».
Già da alcuni anni, l’arte africana e della diaspora sta riscuotendo un grande successo in occidente, basti pensare all’ultima Biennale di Venezia, alle varie mostre dedicate negli Stati Uniti, oppure alla rinascita dell’Afrofuturismo. Ma in Africa – o almeno nei Paesi che tu hai avuto modo di visitare – come è considerata l’arte contemporanea? Ci sono strutture adatte oppure possibilità concrete di formazione e crescita per giovani artisti?
«Questa domanda è molto interessante. Assistiamo già da alcuni anni ad un’espansione dell’arte africana con la fioritura di progetti e fiere specificamente dedicate che rispondono ovviamente anche ad una revisione storica del colonialismo dei secoli addietro. È questo uno dei motivi che mi ha spinto a realizzare questo progetto la cui parte più interessante sono proprio le esperienze, il bagaglio di conoscenze e relazioni che si instaurano e che mi auguro in futuro riuscirò a mettere a frutto.
Come già dimostrano le collaborazioni che stiamo instaurando in questa fase di Under the Spell of Africa esista un vero e proprio sistema dell’arte legato sia al territorio che ai grandi contesti internazionali, tuttavia solo al termine del progetto potrò avere un quadro più puntuale anche probabilmente per superare l’equivoco diffuso di relazionarsi all’Africa nella sua totalità e non come un continente multiforme e sfaccettato quale è».
Una cosa – una sensazione, un momento, un colore… – che hai trovato in Africa e che non potresti trovare in nessun altro posto al mondo. Una cosa invece che non ti aspettavi di ritrovare anche in Africa…
«Sto aspettando che mi colga il Mal d’Africa…per il momento non posso che sospendere il giudizio».