Heidegger ci introduce in un mondo dominato dall’artificiale, di cui ne analizza le implicazioni nella nostra relazione con il mondo. La tecnologia crea l’inquadratura, che definisce il rapporto con il nostro ambiente e guida invisibilmente le nostre esperienze al suo interno. Questo apparato resta celato ai nostri occhi, in quanto apre il mondo al nostro sguardo come se fosse qualcosa di familiare, di “naturale”. Marco Tonelli, nel volume Pino Pascali. La scultura e il suo doppio, recentemente pubblicato da Electa, analizza la scultura dell’artista barese cercando di rispondere a tre interrogativi fondamentali.
Prima di tutto, il rapporto con quel tipo di teatro innovativo che lui frequentava: il Living Theater. Pascali si è dedicato alla scenografia intesa come spazio rituale, liturgico, per cui la mostra non riguarda più la singola opera, ma l’ingombro totale: come il Mare con fulmine allestito alla Galleria l’Attico nel 1966. Tonelli ha analizzato Pascali sotto lo sguardo del postmodernismo: negli anni ’60, compie delle ricerche parallele al minimalismo, alla dimensione orizzontale della scultura – come Carle Andre, Sol LeWitt. Emerge un Pascali molto più internazionale di quello che può sembrare attraverso le iconografie che l’hanno piuttosto verso la Pop Art o l’Arte Povera. Il terzo punto, infine, riguarda il rapporto tra Pascali, la metafisica di De Chirico e il surrealismo di Magritte.
In una maniera estremamente contemporanea, Pascali concepisce la scultura come artificio gestuale per comprendere la realtà. In un atteggiamento demistificatorio verso le evoluzioni della società a lui contemporanea – il boom economico, il ‘68, la società dei consumi – celebra la finzione, non la mimesi. L’autore cita Jean-Marie Le Clézio, per cui è come se “l’uomo fosse un essere in esilio dentro una natura da lui stesso edificata”, una giungla artificiale, una natura di materiali asettici.
Uno spazio in cui l’artificio si compie in tre direzioni diverse. Nella natura, richiamata per metonimia, Pascali segrega i materiali in elementi geometrici; nello spazio, riflette sulla spazialità attraverso una modifica radicale dell’ambiente espositivo; nel tempo, che plagia effettuando scorribande nell’antico e concependo la propria pratica come dall’alto carattere performativo.
Pascali mima la natura elaborando bricolage di oggetti che costruiscono una nuova realtà artificiale. In questo, in che modo Pascali elabora quella che è la finzione nella sua opera?
«Pascali ha sempre formalizzato la natura, che non era mai vera. Ho voluto liberarlo dal mito del mediterraneo, del mare, della natura. Per Pascali siamo selvaggi metropolitani, e lui si è ritagliato un mondo parallelo, artificiale, in cui giocava sulla finzione. Vittorio Brandi Rubiu citava quanto fosse affascinato dai primi film di Pasolini, di cui condivideva il timore dato dalla minaccia del consumismo: la necessità di questa finzione deriva dal voler esorcizzare questa realtà e ricreare, a suo modo, un universo finto. Viviamo in una società che è ricostruita rispetto a qualsiasi nostra istintività o naturalità. Pascali non citava fatti o avvenimenti storici.
Sulla scia di Levi-Strauss, di Tristi Tropici, è l’esploratore che affronta la questione a livello esistenziale: ha applicato al mondo delle tassonomie tribali, antiche. L’artista ha il diritto di manifestare la sua posizione nel mondo, è libero facendo un’arte che in apparenza non è impegnata a livello politico e sociologico, pur potendo rimanere in questa ambiguità. La strategia di decostruzione critica della società non è il mettere in luce un meccanismo occulto ma sancire la libertà dell’artista rispetto al mercato. Per Pascali la mostra permetteva questa operazione: un gioco sociale in cui gli artisti espongono in una galleria, e gli spettatori ne fruiscono».
Attraverso l’esposizione, Pascali muta lo spazio della galleria. L’idea di riflettere sullo spazio espositivo è fondamentale per quel determinato periodo. Differentemente dagli esempi che hai inserito nel testo, in che modo l’artista ripensa lo spazio?
«Pascali non abbandona mai la dimensione plastica della scultura. La sua capacità è stata quella di non disperdersi. Possiamo concepire le sue mostre come installazioni, composte da singole sculture che possono essere separate, non come i Dodici Cavalli di Kounellis. Non era un’artista concettuale, non faceva happening o ambienti. È l’ingombro totale: lo spazio doveva essere riempito, senza lasciare spazi vuoti. Utilizza il pavimento per il mare, le pareti per i delfini dimezzati, a volte utilizzerà il soffitto… Ecco allora che gli elementi fisici, di solito neutrali, che servono per appendere o sostenere l’opera, entrano a far parte dell’opera, come nella stanza metafisica. Il mare stesso crea un assurdo perché è inserito in una stanza».
A proposito della mostra come atto performativo e potenziale, nel testo definivi che l’azione, l’ambiente senza voler essere ambiente, potrebbe decretare la scomparsa o la trasformazione completa dello spazio in un gesto. Sembrerebbe che, in Pascali, l’arte fosse veicolo di questo artificio performativo. In che modo questa potenzialità e potenza estetica ci permette di concepirlo come, effettivamente, performativo?
«Se ci vogliamo attenere ai fatti, Pascali ha fatto solo una performance nella sua carriera. Al di là del suo amore per il Living Theater, Pascali performer non esiste. Tuttavia, sono le sue mostre che sono performance. Questo lo dissero anche Boatto e Calvesi: le sue opere sono delle performance “bloccate”. Che poi Pascali si facesse fare delle foto, fuori scena, vestito da militare vicino al cannone, da primitivo o ingabbiato nella sua trappola è diverso. Nelle foto di Mulas o Abate, lui giocava con le opere. Avevano questa capacità di sprigionare un’energia, trattenuta, e lui è come se volesse cavare quell’energia attraverso la sua reazione, il suo gesto, la sua figura: il richiamo istintivo dell’arte, qualcosa di tribale. Pascali avrebbe voluto che le sue sculture si animassero da sole; infatti, nel suo taccuino di idee per sculture a venire, troviamo degli schizzi di sculture che con il calore, ad esempio, si potevano muovere. Lui stava ragionando sull’idea di una scultura che si anima, che sprigiona la sua vita».
Nel rimando a Magritte con l’ingrandimento degli oggetti, la celebrazione dell’antico contro questa idolatria consumistica con il recupero di De Chirico in chiave favolistica, Pascali è fluido, libero di effettuare scorribande nel tempo, in cui però difende l’assolutezza dell’arte e dell’artista. Questa irrequietezza come si collega alla scelta di cambiare costantemente?
«Pascali diceva che passare tutta la vita senza cambiare è sprecarla. È il serpente che cambia continuamente pelle, ma resta sempre sé stesso. La sua fluidità è tipica della postmodernità che nasce in quel periodo: c’era una strategia estetica, poetica, filosofica, di liberarsi dalle costrizioni per poter sperimentare, mischiare i generi, togliere punti di riferimento. In questo, Pascali era un trasformista, usava la cultura. Credo che lui sia stato il primo artista postmoderno italiano, ha costruito delle scene finte, giocose, ludiche, disimpegnate e un linguaggio personale, mettendo sullo stesso piano dal gioco alla guerra, dalle armi ai feticci, dalla natura alla romanità».
Per Artaud l’ossatura della realtà è la verità, per Pascali è la scultura. È come se esistesse un binomio inscindibile tra scultura e verità. Una delle riflessioni più originali del drammaturgo è sulla natura del gesto teatrale: se può sembrare che il teatro si espanda nello spazio, in realtà si colloca in una temporalità effimera. Come si rivede in questa poetica del gesto nell’opera dell’artista?
«Le sue sculture sono dei gesti nello spazio. Pascali concepisce la gestualità congelata della scultura: un teatro senza attori. Artaud elimina la scenografia, il testo, e arriva a teorizzare un teatro che può essere pura voce. Come in Carmelo Bene, non è la parola che racconta, che descrive, ma la voce che ha la sua autonomia in un teatro senza scena. C’è questo nesso interessante tra un teatro crudele, quello di Artaud, e Pascali, che non taglia le sculture per crudeltà, ma perché vuole arrivare alla verità. La crudeltà di Artaud non è violenza, ma metodo. Pascali lo tratta in un modo differente, ma ci sono tanti concetti che possono essere sovrapposti. Sostanzialmente, per Artaud il teatro è liturgico, e l’unica performance di Pascali lo vede vestito come un officiante: il suo Requiescat in Pace Corradinus, una messa senza parole».
Se, con l’artificio, Pascali ricercava la verità, noi creiamo una verosimiglianza che è slegata completamente dalla verità. In tutto questo, che cosa può aiutarci a comprendere? Questa doppiezza, che mette in discussione il reale, in che modo si può collegare a quella che è la nostra condizione postmoderna?
«Io credo che quello che ci insegna Pascali è che se vogliamo parlare di arte dobbiamo accettare il codice della finzione che l’arte impone. Dobbiamo accettarne le condizioni funzionali, che possono riportarci ad una dimensione antropologicamente molto più intima di tante altre esperienze. Non dobbiamo confondere l’impegno politico con quello artistico: non si deve necessariamente, per essere impegnati, parlare di esperienze che sono del mondo della società. Se all’arte togli quello che è il suo linguaggio specifico, quel gesto perde qualsiasi rilevanza rispetto alla realtà e l’arte non può fare a gara con il reale, perché sarebbe sempre sconfitta. L’unica possibilità è ritagliarsi un nuovo reale, una dimensione, che sia favolistica, infantile, come quella di Pascali: la libertà dell’artista, capace di crearsi il suo mondo».
Marco Tonelli, Pino Pascali. La scultura e il suo doppio, Electa, 2023, ISBN
9788892824454, 152 pagine
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