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Il trionfo della vita, sempre contemporaneo: Cecily Brown al Museo di Capodimonte
Arte contemporanea
Fino al primo maggio 2022, a Napoli, al secondo piano della Reggia-Museo di Capodimonte, è in mostra, con la curatela di Sergio Risaliti, The Trumph of Death di Cecily Brown (1969), un’opera che, nonostante il titolo, è divertente ed energetica. Divertente perché diverge dallo spirito lugubre dei Trionfi della Morte diffusi nel Medio Evo, che poi, sottolineandone lo spirito giustizialista, presero il nome di Giudizio Universale e tracimarono nel Rinascimento, con Luca Signorelli (1441-1523) a Orvieto e con Michelangelo Buonarroti (1475-1564) in Vaticano. L’opera di Cecily Brown è a suo modo nuova, perché, divergendo dall’attuale tendenza di rimestare lugubremente toni apocalittici, mantiene una sua fresca baldanza. Si presenta come un rifacimento de Il Trionfo della Morte, un affresco del Quattrocento, di autore sconosciuto, staccato dal cortile porticato di un edificio normanno, Palazzo Sclafani di Palermo, e portato nel museo di Palazzo Abatellis, quattrocentesca costruzione di stile catalano, ora Galleria Regionale della Sicilia (da notare, in questi palazzi, le testimonianze della storia palermitana).
Il tema del Trionfo della Morte è ricavato dai Vangeli, il Giudizio Universale di Matteo e l’Apocalisse di Giovanni, che raccontano il trionfo della giustizia divina e la fine della storia dell’umanità. Qui Cecily Brown guarda alla storia antica, come tanti artisti contemporanei che, nonostante la loro brama di attualità, si rivolgono al passato e lo lasciano parlare considerando che ancora ha tante cose da dire. Ma il passato che lei rievoca non è quello degli evangelisti, bensì è il tempo in cui la gente dell’Europa centro-settentrionale esce dal chiuso Medioevo e si apre al Quattrocento. Così Il trionfo della Morte di palazzo Abatellis, a cui Cecily Brown si ispira.
Il suo The Triumph of Death fa parte di quel ciclo di opere che, per iniziativa del direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte, Sylvain Bellenger, vengono mostrate, con il loro corredo iconografico, nella Reggia-Museo. Qui, al primo piano, c’è la Sala numero Sei, un luogo un po’ defilato, un posto raccolto, dove, una alla volta, viene messa in mostra un’opera sola, la quale, attraendo l’esclusiva attenzione del visitatore, si fa guardare un po’ più a lungo. Qui è già stata in mostra la Parabola dei ciechi di Pieter Bruegel il Vecchio(1525-1569), una sorta di amara parabola del progressismo, seguita da uno stupendo dipinto di Antoon Van Dyck (1599-1641), la crocifissione di un Gesù, che, spingendo verso l’alto il suo spasimante, bellissimo corpo greco, scivola via dalla croce salendo verso il Cielo. Poi c’è stato il mondo sereno dai tranquilli fremiti di vita di Jan Wermeer (1632-1675) e la retorica ottocentesca di Francesco Jacovacci (1838-1908) che dipinge l’amore letterario di Michelangelo Buonarroti per Vittoria Colonna sul letto di morte.
Ma il dipinto della serie de “L’opera si racconta” che più si avvicina al trionfo siciliano, anche per la datazione, è “La Sacra Conversazione” di Konrad Witz (1410-1445). Si tratta di un gruppo di santi riuniti in una chiesa che ha qualcosa di misterioso e inquietante: le quasi inavvertite spezzature dell’alto della chiesa a un tratto virano, storcendo e restringendo lo spazio, e creano una visione dalla angosciante logica dubitativa. È il tempo in cui la Chiesa viveva, con il Grande Scisma d’Occidente, un periodo confuso e travagliato: aveva tre papi, fin quando un Concilio, quello di Costanza, eliminò tutti e tre, elesse un nuovo papa e condannò a morte Jan Huss (1369-1415) e il suo maestro John Wiclif (1330-1438), il quale, essendo già morto, fu scavato dalla fossa e, secondo legge, fu buttato anche lui tra le fiamme. Ma è anche il tempo in cui, nell’Europa Centro-Settentrionale, si sviluppano le città, che offrono una più ottimistica visione della vita. Infatti, nella chiesa rappresentata c’è, sulla destra, un uscio aperto su una scena, dalla chiara luce diffusa, di una tranquilla vita cittadina.
Una simile temperie viene espressa da Il Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis, il cui autore potrebbe essere – è stato detto – un pittore del Nord Europa. Nell’affresco siciliano, ci sono persone che vanno a caccia, sport all’epoca molto amato, e altre che conversano pacificamente intorno a una bella fontana. Al centro, un esile cavallo, testa e gambe rinsecchite, porta in groppa la Morte, un impressionante scheletro che ha appena scoccato un freccia assassina e che ha sul fianco una faretra. Accanto, ignorati, distesi al suolo, ci sono poveri e ricchi, nobili e prelati, morti anche loro. Nel dipinto, nonostante le scene di un certo cauto ottimismo, c’è una visione macabra talmente soverchiante che colpisce i visitatori a tal punto che, a volte, questi, evitando il dipinto, che si trova proprio all’ingresso della galleria, svicolano in fretta, magari per andare ad ammirare, in un’altra sala, la bellissima Annunciata di Antonello da Messina (1430-1479).
The triumph of Death di Cecily Brown si differenzia molto nello spirito dal suo modello e anche nella sua forma. Il trionfo siciliano ha una composizione rettangolare (6 x 6,40 metri) mentre quella dell’artista inglese (5,35 x 5,35 metri) è più raccolta nella sua forma quadrata. L’opera siciliana presenta i visibili segni dei tagli dello strappo dal cortile di Palazzo Sclifani, che la dividono in quattro parti uguali, organizzandola in una sua razionale geometria. Nell’opera di Cecily Brown questa “razionale” divisione è superata dall’imporsi di una bianca striscia orizzontale che l’attraversa da sinistra a destra in quasi tutta la sua lunghezza. È il corpo di un cavallo. È lui, il cavallo, il protagonista del dipinto e, vitalissimo, pieno di energia, si spinge in avanti senza sforzo, corre privo di redini, privo di vincoli, con la baldanza della libertà e si libra in uno spazio un po’ sollevato da terra, le gambe posteriori puntano al salto, quelle anteriori si allungano andando oltre, gli orecchi si tendono, la coda ondulata mima il movimento del mare nella risacca.
Dove va? Il cavallo non se lo chiede, ha l’incoscienza di un adolescente e va lontano, chissà dove. E, immettendosi in una «Gioiosa danza macabra, fa un lungo sorriso e si muta nel cavallo di un circo fantastico», ha osservato Bellenger. Che, giustamente, non scrive che il suo sorriso è largo ma che è lungo, come il suo muso equino. In groppa al cavallo c’è la Morte. Che si agita, figura ischeletrita, furiosa, lo aizza alla corsa, alzando il suo braccio rinsecchito e muovendolo avanti e indietro, in un frenetico movimento realizzato con la ripetizione del suo profilo, come le zampette del progressista, futuristico cagnolino di Giacomo Balla.
Intorno, un bailamme di colori in cui si distinguono alberi verdi e si confonde una folla variopinta da leggere tinte trasparenti, che non coprono le figure retrostanti. E sono tante persone, l’una dietro l’altra, l’una dentro l’altra, innumerevoli. Il senso del dipinto può considerarsi una visione contemporanea, perché ricorda gli anni successivi a una pandemia, quella della peste nera del Trecento (all’incirca dal 1337 al 1353), l’insicurezza dovuta alle guerre, la crisi ideologico-religiosa e la difficile situazione politico-sociale, mentre la vita va avanti con la morte, oltre la morte.