In cosa può trasformarsi il dolore e che tipo di narrazione e opposizione l’arte può offrirne? Inaugurata lo scorso 14 ottobre e aperta fino al 29 gennaio 2023, il Kunst Meran Merano “Arte ospita Turning pain into power”, mostra collettiva che riflette sulla sofferenza generata dalle ingiustizie sociali e politiche, nel tentativo di contrastarle. Curata da Judith Waldmann, l’esposizione raccoglie le opere di tredici artisti: il dialogo che si instaura tra loro intreccia i toni più sottili e poetici con quelli più accesi e militanti. Le singole ricerche artistiche diventano così un mirino per rileggere temi chiave come il razzismo, la violenza di genere e la lotta alle discriminazioni.
La condizione dolorosa è da sempre una costante umana, nonostante il nostro rapporto con essa sia mutato nel tempo. L’estrema varietà dell’origine del dolore si riflette negli effetti altrettanto vari che è capace di produrre: le opere di “Turning pain into power”, ancor prima di essere pratiche artistiche, si presentano come modalità diverse di reazione davanti alle ingiustizie. L’esposizione si apre con un manifesto sul diritto di far sentire la propria voce: I won’t shut up di Monica Bonvicini, esortazione accolta – e restituita – in tutti i lavori che si snodano nello spazio. Tra loro, interessante è la tensione che si crea nelle opere di Silvia Giambrone: nel video Traum, l’artista legge storie di violenza domestica scritte su fogli di ceramica, che poi distrugge al suolo. Il trauma sonoro dialoga con l’apparente dolcezza di un altro suo lavoro: i Security blancket, una serie di coperte che uniscono consigli severi a un’estetica innocente.
L’esposizione prosegue con l’impatto crudo del video El dolor en un pañuelo di Regina José Galindo: il suo corpo nudo e disarmato diventa lo spazio di proiezione per una sequenza di articoli di giornale sulla violenza di genere. Accanto all’inerte sofferenza femminile, evocata anche dalle foto di altre performance dell’artista, torna la Bonvicini e il suo video Hammering Out (an old argument): prendendo a martellate un muro, la fatica fisica diventa metafora della sfiancante lotta quotidiana contro i soprusi. Casa Azul, complessa ricerca di Giulia Iacolutti, propone invece la narrazione visiva delle storie di persone transgender nelle carceri maschili messicane: il blu – ispirato agli abiti dei carcerati – accomuna tutte le immagini, rendendole una sorta di cianotipia della loro condizione.
Ancora, i lavori di Philipp Gufler ruotano attorno alla problematicità dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale, passando da Kostüm Kakaduarchiv, casacca-bandiera contro l’omofobia, alla storia del cantante pop Daniel Küblböck, raccontata nel toccante video Lana Kaiser. A questo percorso, Adrian Piper contribuisce con un approccio poetico e meditativo: nella serie di fotografie Moksha Mudra, una mano chiusa a pugno tende pian piano ad aprirsi e distendersi. Anche la capacità di lasciar andare genera sofferenza, ma talvolta può essere salvifica: non è un caso che a chiudere la mostra, profetico come un giudizio universale, sia il suo lavoro-specchio Everything will be taken away.
In effetti, ogni cosa è destinata a diventare qualcos’altro: in “Turning pain into power”, l’arte ha utilizzato l’iniquità come materia organica e creatrice. Le opere diventano così antidoti all’indifferenza e a tutte quelle forme di cecità di fronte alla visione del dolore, da cui ci sentiamo spesso assuefatti. Ancora una volta, il medium artistico rinnova il suo impegno intimamente politico, mostrandoci quello spazio sempre abitabile e condivisibile all’interno delle storie altrui.
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