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«Tutti dovrebbero avere il diritto di muoversi». Intervista a Mosa One
Arte contemporanea
Mosa One, classe 1997, è un artista che indaga temi legati all’identità e alla giustizia sociale servendosi di linguaggi artistici eterogenei: dai murales alle installazioni, fino alle creazioni tessili. Nato a Roma da genitori egiziani, la sua ricerca affonda le radici nella complessità della doppia identità, traducendo l’eredità culturale e il senso di appartenenza a due mondi, apparentemente distanti ma intimamente connessi.
Fino al 20 dicembre, Mosa è protagonista a Spazio Serra con Departures / مغادرون, un’installazione che mette in discussione l’assurdità dei confini politici e geografici. Durante la nostra conversazione, l’artista ha condiviso la sua visione dell’arte come un potente strumento per abbattere barriere e stimolare una consapevolezza collettiva. Attraverso un approccio che intreccia spiritualità e impegno sociale, Mosa invita il pubblico a riflettere sul privilegio, sull’esperienza umana e su ciò che ci unisce, al di là delle nostre differenze.
Sei partito dai graffiti e da lì il tuo percorso è cambiato molto. Come descriveresti l’evoluzione della tua arte, dalle prime esperienze fino alle opere che realizzi oggi?
«Il mio percorso artistico è nato dai graffiti. Era un bisogno espressivo, una forma di sfogo personale, quasi una rivendicazione: scrivere il mio nome sulla città era un modo per impormi, per farmi accettare dalla società. Con il tempo, però, quel bisogno è cambiato. Non era più solo una valvola di sfogo, ma una forma di espressione più complessa, uno strumento per comunicare idee e messaggi più elaborati. Sono passato dai ponti e dagli spazi nascosti alle tele, prendendomi il tempo per riflettere e creare. A 19 anni, fui invitato a partecipare a una mostra al MACRO, e quello fu un punto di svolta. Mi trovai in un ambiente che non pensavo mi appartenesse, ma che mi ha permesso di scoprire dinamiche nuove: gallerie, artisti, e un sistema che ho imparato a comprendere. Da lì compresi, vedendo altri artisti farlo, che potevo anche io provare a farlo e concentrarmi principalmente su quel percorso».
E oggi trovano ancora spazio nella tua pratica artistica?
«I graffiti fanno parte delle mie radici, ma non li realizzo più in strada come una volta. Non mi interessa più l’idea di vandalismo. Tornerei a farlo solo se potessi farlo in modo consapevole, attraverso installazioni o progetti che abbiano un contesto più stabile e rispettato. La strada, però, conserva un fascino unico: è uno spazio che accoglie l’arte senza filtri, e questa autenticità continua a ispirarmi».
Ci sono degli artisti o delle esperienze che hanno influenzato il tuo percorso e si riflettono nel tuo linguaggio creativo?
«La mia ispirazione nasce dalla vita stessa: tutto ciò che accade, nella mia vita e nel mondo, contribuisce al mio percorso artistico. Tra gli artisti che mi hanno segnato profondamente c’è El Seed. L’ho conosciuto di persona, e il nostro incontro è stato fondamentale. Da adolescente gli scrissi su Instagram: lui mi rispose, iniziò a seguirmi, e così nacque il nostro rapporto. Inizialmente, ammetto di averlo un po’ “copiato”, ma è stato un mentore incredibile, una figura di riferimento. Mi ha motivato sia a livello personale sia nella mia visione dell’arte. L’ho osservato lavorare dal vivo e ho imparato molto da lui: non si tratta solo di dipingere qualcosa di bello, ma di costruire un intero approccio dietro l’opera. Da lì, ho cominciato a sviluppare il mio linguaggio personale, basato sulle mie esperienze».
Utilizzi diversi linguaggi artistici: pittura, murales, performance. Parlando di quest’ultima, perché senti che questo medium sia particolarmente adatto per esprimerti?
«Per me l’arte è comunicazione, e ogni progetto richiede il medium più adatto per raccontare una storia. Ad esempio, la performance è nata come risposta alla staticità di alcune mostre: volevo coinvolgere il pubblico, creare un’esperienza interattiva, non limitarmi a un’esposizione passiva. La mia prima performance è stata a BASE, durante la mostra Homeland. Da lì ho iniziato a sperimentare: installazioni, tessuti, performance. Ogni medium è una possibilità di esplorare nuovi territori, e mi lascio guidare da ciò che il concetto richiede».
Come hai vissuto il tuo rapporto con il sistema dell’arte istituzionale e con realtà alternative? Cosa ti ha aiutato a trovare il tuo spazio in questo panorama?
«È un rapporto complicato, quasi un amore non corrisposto. Ho sempre fatto quello che sentivo, cercando di entrare in quel sistema, ma spesso senza trovare fiducia. La mia prima vera opportunità è arrivata in Sudafrica, dove una galleria ha creduto nella mia visione. Quella fiducia è arrivata dall’altra parte del mondo, mentre qui ho spesso trovato porte chiuse. Adesso, però, non cerco più il consenso di nessuno. Mi concentro su progetti che mi rispecchiano, come quelli con Spazio Serra o altre realtà alternative».
Nella tua attuale mostra a Spazio Serra, Departures / مغادرون, il concetto di confine è centrale. Come interpreti l’idea di confine, non solo in senso geografico ma anche mentale e culturale? Quali riflessioni speri di stimolare nel pubblico?
«I confini, per me, non sono solo geografici: sono soprattutto mentali. L’arte ha il potere di rompere quei confini invisibili, di ampliare gli orizzonti e offrire una visione più universale. Con i miei lavori cerco di invitare il pubblico a riflettere, senza imporre risposte. Ad esempio, nel progetto esposto a Spazio Serra, ho affrontato il tema dell’immigrazione attraverso l’idea del movimento. Le persone si spostano da un luogo all’altro, ma siamo noi a creare gerarchie e barriere. Ogni persona dovrebbe avere almeno il diritto di muoversi. Perché una persona ha il diritto di muoversi e altri no? Questo è il centro del progetto. Non voglio dare soluzioni, ma offrire spunti di riflessione».
C’è un’opera, tra tutte quelle che hai realizzato, a cui ti senti particolarmente legato?
«Il cuscino, paradossalmente, è quella più distante dal tipo di opere che ho realizzato finora. Si tratta di un cuscino di salvataggio appoggiato a terra, con la scritta “Pillow for undocumented dreams”».
Nelle tue opere, la scrittura si intreccia spesso con elementi visivi. Quale significato attribuisci al linguaggio scritto, quale messaggio vuoi trasmettere con esso?
«La scrittura è una chiave di lettura fondamentale nel mio lavoro. Voglio essere capito, arrivare alle persone. Le parole, anche quelle in arabo, mi permettono di riprendere la mia identità e di creare un dialogo tra tradizione e contemporaneità in modo diretto. Anche se non tutti capiscono il significato delle parole, esse aggiungono profondità e stratificazione all’opera, diventando un mezzo potente e chiaro per creare un ponte tra mondi diversi».
Con l’anno che volge al termine, quali sono i progetti che hai in mente per il futuro?
«C’è una mostra collettiva prevista per il 2025 in Spagna, ma voglio anche esplorare nuove strade. Mi piacerebbe raccontare il mio processo creativo e la mia esperienza come artista su YouTube, aprirmi di più. Voglio offrire ispirazione a chi, come me, parte da un contesto lontano dal sistema artistico tradizionale. È un modo per creare connessioni, ma anche per trovare un’alternativa al sistema convenzionale. L’importante, per me, è continuare a muovermi: nulla accade se non sono io il primo a fare il passo».
Come vorresti chiudere questa conversazione?
«Vorrei aggiungere anche un messaggio di speranza per l’anno che verrà, un invito a maggiore apertura nel panorama artistico italiano. L’arte è il mezzo che, più di ogni altro, riflette la società. E la società italiana, così come il suo tessuto sociale, sta cambiando visibilmente ogni giorno, sia nelle strade che nella quotidianità. Continuare a mantenere chiusure nel mondo dell’arte non porterà a risultati positivi, ma rischia invece di causare danni significativi. Spero che questo venga compreso al più presto. È fondamentale dare spazio ai giovani, alle diversità e a chi, meglio di chiunque altro, può raccontare l’Italia e la sua contemporaneità».