Presenta opere di quasi cinque decenni di attività la personale che la Simon Lee Gallery, sede di Hong Kong, dedica, fino all’otto maggio prossimo, ad Hans Peter Feldmann (Hilden, Germania nel 1941).
Dai quadri ad olio storici rimaneggiati alle raccolte di fotografie, dai collage agli object trouvé, la mostra permette di accostarsi ad alcune tipiche modalità della pratica di Feldmann. Considerato tra i maestri dell’arte concettuale, nel gennaio scorso Hans Peter Feldmann ha compiuto ottanta anni e continua ad affascinare generazioni di artisti più giovani. Perché? Per la sua ossessione di una vita: le immagini. Come un orologiaio smonta l’orologio per capire come funziona il tempo, per tutta la sua vita Feldmann ha raccolto e sezionato immagini per carpire i meccanismi della visione.
Le ritagliava da riviste fin da bambino, per poi bruciarle. Da adulto, decenni prima dei social e quindi del trionfo di Instagram e hashtag Feldmann ha poi maniacalmente e puntualmente cercato immagini e fotografato persone, oggetti e ritagli di giornali a sua volta. Capigliature, ginocchia, gente che fuma, coppie di tutti i tipi e i tempi e moltissimo ancora sono stati raccolti e ricomposti in un personale ordine o disordine, nei suoi celebri libri d’artista (pubblicati dalla sua stessa casa editrice “Feldmann Verlag” e da Walther König, Colonia).
In mostra troviamo Lips, 16 fotografie di labbra e una delle sue raccolte più celebri Alle Kleider einer Frau, 70 immagini di tutti i vestiti e accessori di una donna, un guardaroba dissezionato, insieme all’identità della proprietaria. Una cruda riproduzione di abiti, in cui alcuni hanno letto una trasfigurazione dell’esperienza dei lager nazisti. Un passato, quello della Germania, con cui Feldmann si è confrontato anche esplicitamente in altre opere, come il libro Die Toten 1967-1993: un incubo per immagini tratte da giornali di 90 persone morte per mano dell’organizzazione terroristica RAF e della reazione dello Stato, riportate senza alcuna differenziazione tra esecutori e vittime.
Del resto, le parole scorrono, ma le immagini bombardano, e spesso ingannano. Feldmann lo sa bene, tanto da aver fatto una mostra senza opere d’arte, ma di sole descrizioni di opere (èkphrasis) nel 1995 a Parigi, presso la Galerie Liliane et Michel Durand Dessert. O, viceversa, aver fatto ristampare un intero numero del celebre settimanale austriaco Profil solo con le immagini, senza testo (Nr.7.02.2000).
In un’intervista realizzata per il Louisiana Art Museum l’artista ha paragonato la sua ossessione per le immagini ad un meccanismo simile a quello della febbre: come l’alzarsi della temperatura uccide i virus, così l’esporsi ripetuto e parossistico alle immagini ha un effetto catartico, liberatorio. Del resto secondo lui ”Tutti siamo artisti, io di più, perché ho più problemi”.
Per Feldmann l’arte non è creazione pura, ma “sporca” riproduzione dell’esistente in un gioco di specchi e rimandi tra copia e originale: egli infatti non firma le sue opere, né le data. Spesso si “appropria” di opere antiche, dipinti ad olio, su cui apporta interventi più o meno sottili e umoristici, tranelli visivi per chi osserva: improbabili segni di bikini in un nudo d’epoca, l’aggiunta di un naso rosso da clown a un composto ritratto antico, o dipingendo di bianco il volto del soggetto per creare un trompe l’oeil cut out. (in mostra i dipinti Clouds, Untitled, A Story). L’associazione con il più giovane Markus Schinwald è immediata, ma se l’artista austriaco turba, Feldmann punzecchia con esprit.
Dissacratore, antiauratico e antiautoriale, Feldmann vuol scardinare uno ad uno i meccanismi di funzionamento dell’arte e del suo sistema, mercato compreso. Tra gli episodi più noti quello legato al prestigioso Hugo Boss Prize, che gli venne conferito nel 2010: allora utilizzò l’intera cifra assegnatagli, 100mila dollari, per creare la scultura da esporre in mostra, anche questa parte del premio, presso il Guggenheim di New York. Forse chi legge ricorderà la contestazione messa in atto da Gianni Colosino contro il Guggenheim perché l’opera avrebbe ricalcato troppo esplicitamente la sua “Wallpaper: Il vortice del desiderio è privo d’orizzonte” presentata alla galleria Pack di Milano nel 2006. Contesa ripresa e omaggiata in un gioco di matrioske concettuali da Maurizio Cattelan in Shit and Die a Torino nel 2014, che apriva con un’installazione di Eric Doeringer composta da banconote per 40 mila dollari.
In italia Feldmann ha esposto, tra l’altro, alla Biennale di Venezia il suo “Shadow Play” nel 2009 riproposto in una nuova versione, nel 2012, all’Hangar Bicocca, mentre nel 2018 la serie “100 Years” è stata presentata al MAN di Nuoro.
Dice di non essere artista, ma è sicuramente un personaggio. Vale la pena ricordarne altre gesta, come la rinuncia alla laurea in chimica il giorno dell’esame finale o il negozio che aveva aperto Düsseldorf, sua città da sempre, con la moglie: una Wunderkammer di oggetti al limite tra kitsch, arte e sublime che egli sceglieva accuratamente. ll negozio, Laden 1975–2015, è stato musealizzato ed esposto al Lenbachhaus di Monaco, nel 2020 nella mostra ”I’m a Believer. Pop-Art und Gegenwartskunst”.
Per quanto incredibile – o forse arrivati a questo punto no – Feldmann ha anche attivato un fiorente commercio con i ditali da cucito. Speriamo che il suo sguardo acuto continui a penetrare nelle crune del presente che ci aspetta.
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