Lo Stedelijk Museum di Amsterdam ha recentemente inaugurato ULAY WAS HERE, una grandiosa retrospettiva che celebra l’arte rivoluzionaria di Frank Uwe Laysiepen (1943-2020), noto a tutti come Ulay.
Più che alle opere figlie degli iconici anni di collaborazione con Marina Abramović, l’intento della mostra è quello di dare il giusto riconoscimento al radicale lavoro da solista di Ulay che ha preceduto e succeduto il noto sodalizio artistico.
Curata da Hripsimé Visser e Rein Wolfs, in stretta collaborazione con Hana Ostan Ožbolt della Fondazione ULAY e la consulenza di Maria Rus Bojan, ULAY WAS HERE risulta monumentale per dimensione e clamore, celebrazione solenne di un mitologico artista che ha dominato la scena artistica internazionale dagli anni Settanta.
Composta da oltre 200 opere, di cui alcune esposte per la prima volta, la retrospettiva comprende fotografie, polaroid, sculture, proiezioni e materiale d’archivio. Seguendo un ordine cronologico, il percorso espositivo non solo evidenzia il cambiamento progressivo ed evoluzionistico della pratica di Ulay, ma rimarca soprattutto i temi cardini della sua poetica, rimasti una costante della sua indagine. In particolare, l’intera mostra ruota intorno all’attenzione verso la performance e gli aspetti performativi della fotografia, la ricerca sull’identità di genere e sul suo corpo come mezzo, l’impegno con le questioni sociali e politiche («l’estetica senza etica è cosmetica»), e il suo rapporto con Amsterdam, città d’adozione dal 1968.
Autentico pioniere della fotografia, della performance e della body art, Ulay inizia a muovere i primi passi come artista spinto da una radicata insoddisfazione personale e sociale, oltre che dalla volontà di rinnovo dell’arte. Fin dall’inizio della sua carriera artistica si è impegnato a confrontarsi con il mondo, articolando un rapporto intenso con il cambiamento sociale. Partendo dalle sue polaroid, la mostra ricerca il mezzo fotografico come strumento d’indagine della sua pratica, eletto come medium fondamentale per le ricerche tematiche delle nozioni di genere e del corpo.
Inizialmente Ulay si è affidato esclusivamente al potere dell’istantanea nel tentativo di indagare la sua identità: con l’ausilio di poesie visive e aforismi, praticò una fotografia performativa intima, scattando centinaia di autoritratti che gli permisero di esplorare il proprio corpo, come in S’he, suggestiva serie non narrativa di Polaroid, scattate dall’artista mentre posa unendo le sue due metà, quella maschile e quella femminile.
Con il passare degli anni, percepì il bisogno di cimentarsi in altri mezzi artistici che gli consentissero di evolvere a livello artistico e personale, permettendogli di infrangere la superficie e raggiungere un livello più profondo di analisi e sperimentazione. Fu la performance Fototot (1975-1976) a segnare la fine della sua prima fase fotografica attraverso la presa in esame della transitorietà e mutabilità della fotografia e del pubblico. Da qui, dopo la sua iconica Irritation – There Is a Criminal Touch to Art (1976), la mostra prosegue con alcune delle performance rivoluzionarie frutto della collaborazione con Marina Abramović. Spronandosi a valicare i propri limiti fisici e a esplorare l’intenso disagio emotivo, il corpo rimase l’oggetto di ricerca fondamentale di tutte le opere profondamente conflittuali e intensamente perturbanti di Ulay.
Dopo la struggente The Great Walk/The Lovers (1988), viene documentato il ritorno al suo primo amore: la fotografia. Con l’opera Self-Portrait, del 1990, l’artista inserisce una dimensione inedita all’interno delle foto con l’inclusione del proprio corpo in scala 1:1, rendendo così perfettamente coincidente la sovrapposizione corpo-immagine. La retrospettiva si conclude con l’ultimo lavoro portato e termine prima della sua triste dipartita: si tratta di Performing Light (2019), un’effimera performance collettiva in cui persiste la sperimentazione fotografica, le dinamiche con il pubblico e la vulnerabilità del corpo.
È abbracciando la propria vulnerabilità che Ulay è stato in grado di ritrarre con implacabile realismo le sfaccettature dell’uomo, celebrandole come tesori preziosi e rendendole le vere protagoniste della sua arte.
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