19 maggio 2021

Un autoritratto quasi perfetto

di

L’occasione di questa mostra rappresenta in Italia la prima ampia personale di Luisa Lambri, attraverso un progetto espositivo pensato e sviluppato appositamente per il PAC di Milano

Luisa Lambri, Untitled (100 Untitled Works in Mill Aluminum, 1982-86, #01), 2012, C-Print, 79,39 x 94 cm Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano e Thomas Dane Gallery

“Autoritratto” è la mostra personale di Luisa Lambri (Como, 1969) che ri-apre la stagione del PAC a Milano.
Una nuova stagione dopo la brevissima apertura lo scorso febbraio, con una mostra quasi perfetta per l’equilibrio algido che si relaziona con la trasparenza dell’architettura del Padiglione di Ignazio Gardella, per il riferimento (che da titolo al progetto) al volume Autoritratto del 1969 di Carla Lonzi e infine per il sistema di allestimento su disegno di Lina Bo Bardi che Lambri sceglie per allestire la serie Untitled (Sheats-Goldstein House), 2007, nel parterre del PAC.

Luisa Lambri, Autoritratto. Installation view della mostra, PAC 2021. Foto Lorenzo Palmieri

L’occasione di questa mostra rappresenta in Italia anche la prima ampia personale di Luisa Lambri attraverso un progetto espositivo pensato e sviluppato appositamente per il padiglione milanese.

Luisa Lambri, Untitled (Sheats-Goldstein House, #14), 2007, C-Print, 91 x 76,5 cm, Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano e Thomas Dane Gallery

Interamente focalizzato sulla fotografia, strumento espressivo che cadenza la ricerca dell’artista tra pensiero e forma, in una dimensione di astrazione concettuale dal 1989, anche in questa direzione il progetto costituisce una mostra quasi perfetta presentandoci un aggiornamento del lavoro dell’artista mediante un excursus complesso, ma ben architettato, di una vasta selezione di opere realizzate tra il 1999 e 2017.
Dal progetto emergono due aspetti: la predilezione di Lambri per la costruzione di serie nelle quali luce e forme scandiscono il tempo e lo spazio; il suo dialogo con il lavoro di artiste e artisti come Donald Judd, Robert Irwin, Lygia Clark e Lucio Fontana e architetti come Álvaro Siza, Walter Gropius, Marcel Breuer, Mies van der Rohe, Luis Barragán, Rudolph Schindler, Paulo Mendes da Rocha, Lina Lo Bardi, Giuseppe Terragni.
Sono quindi le icone della scultura minimalista americana – così come dell’architettura modernista e delle sue eredità – i riferimenti dell’artista. Spogliati da ogni elemento descrittivo o riconoscibile, narrati attraverso dettagli minimi e secondari (soglie o svincoli così come griglie di materia o di ombre) si trasformano in occasioni di attesa che, nel chiarore di un’atmosfera rarefatta, restituiscono spazi e momenti decantati e essenziali.
Questo forse l’aspetto principale della narrazione di Lambri, consolidata e riconoscibile negli anni: l’uso di forme e architetture per creare immagini, mai immagini per documentarle. Sono infatti solo le didascalie delle sue fotografie – o i brevi testi che accompagnano il visitatore – ad orientarci nella geografia e nei manufatti che l’artista indaga e di cui si impossessa per un percorso ostinato e silenzioso di astrazione.
Aspetto, quest’ultimo, che si costituisce come elemento attrattivo stimolando nell’osservatore un secondo livello di curiosità, ma in parallelo anche aspetto di un processo consapevolmente funzionale nella ricerca dell’artista.

Luisa Lambri, Autoritratto. Installation view della mostra, PAC 2021. Foto Lorenzo Palmieri

Molti sono poi gli elementi della mostra che fanno di questa personale un intenso omaggio alla storia e alla struttura del PAC per un place specific che sottolinea il volume empatico e luminoso dell’edificio milanese di Gardella. Tra questi, nella prima sala, l’omaggio agli Ambienti Spaziali di Lucio Fontana, artista che ci colloca nella geografia culturale del padiglione; l’utilizzo sapiente del soppalco – balconata del PAC nel quale le serie fotografiche scelte cadenzano lo spazio e il tempo di visione della nostra percorrenza; il parterre, dove il sistema di allestimento in cemento, legno e vetro – che riprende quello progettato da Lina Bo Bardi per il Museu de Arte de Sao Paulos in Brasile – ci sospende e relaziona nello spazio interno ed esterno al padiglione stesso insieme alle opere di Luisa Lambri.
Infine nella mostra ci ri-appare Carla Lonzi con il riferimento al suo iconico volume Autoritratto, raccolta di interviste a quattordici artisti scelti dall’autrice per rappresentare, – in una dimensione attiva e personale – la sua esperienza nell’avanguardia degli anni ’60. In un gioco di ribaltamento nel tempo e nella sensibilità, Luisa Lambri collega e omaggia la pratica e i contenuti delle interviste alla sua personale pratica di ascolto e di appropriazione (di intervista quindi) verso forme e architetture iconiche del XX secolo.
Dove sta allora la “quasi” perfezione di questo complesso – ma insieme felicemente percepibile – progetto espositivo? Forse si annida nella condizione di contemporaneità dell’artista, nel suo farsi sensibile alle oscillazioni percettive del tempo presente, metaforicamente parallele a quelle atmosferiche e luminose del padiglione stesso di Gardella durante le visite alla mostra. In parallelo forse anche in un eccesso di perfezione concettuale che apparentemente lascia poco margine all’incertezza e all’errore. Una qualità ma forse anche una distanza. Una porta aperta, ma ben vigilata, all’intimità di visioni temporali. Quest’ultimo diventa allora elemento di interesse che sollecita nuovi approcci critici e relazionali

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