Dal 12 al 15 novembre 2020 si è svolta, in versione online, la terza edizione del Festival della Peste, promosso dalla Fondazione il Lazzaretto, la cui programmazione quest’anno era focalizzata sul tema della Pazzia. Quattro giorni di performance, laboratori e progetti artistici, rigorosamente online, sul sito dedicato al festival, durante i quali il pubblico è stato invitato alla riflessione sulla follia. È arrivato alla sua terza edizione anche il Premio Lydia!, dedicato agli artisti under 30 e promosso dalla Fondazione con la mentorship dell’artista Adrian Paci e che quest’anno vede come vincitrice Valentina Furian, con Bastardo, la sua opera incentrata sul tema della follia rispetto al rapporto umano e animale, presentata in anteprima al Festival. L’abbiamo raggiunta per farci raccontare di più.
Qual è la strada che ti ha portato al Premio?
«Parte del mio lavoro è dedicata alla partecipazione di calls per la produzione di nuovi progetti. Conoscevo la Fondazione Il Lazzaretto e a gennaio 2020 ho trovato il bando pubblicato online, la tematica mi sembrava coerente con le ricerche che porto avanti nel mio lavoro.
Nel Premio Lydia! viene chiesto un progetto inedito da realizzare, che sarà poi prodotto con un budget di produzione e fee d’artista. Ho da subito pensato che questo aspetto del premio dimostrasse una reale consapevolezza del lavoro dell’artista e delle necessità che questo lavoro comporta e così è stato».
Puoi parlarci del percorso della tua ricerca artistica?
«Mi occupo soprattutto di immagini in movimento. La mia ricerca si definisce attorno al discorso del rapporto tra uomo e natura, in particolar modo tratta l’addomesticamento come forma di controllo dell’essere umano, sia su sé stesso che nei confronti del mondo animale.
Nel mio lavoro prende forma come tentativo umano di allontanamento della bestialità in funzione dell’edificazione di una struttura antropica regolarizzata da norme. Lavoro spesso con animali veri nei set dei miei film, Bastardo è il primo animale digitale che abita i miei video».
Bastardo è un titolo d’impatto, come mai questa scelta?
«Bastardo è un ibrido tra due individui di due gruppi animali differenti ma della stessa specie, nella specificità canina sono solitamente quegli esemplari che abbandonati dall’uomo diventano animali randagi. Bâtard è anche il cane di Jack London che ha una relazione mossa da un profondo odio nei confronti del padrone. Diciamo che il titolo è dedicato al protagonista di questa storia».
Ci puoi raccontare della genesi del progetto?
«Per il Premio Lydia! mi interessava lavorare con la figura del cane randagio come una figura liminale che si pone tra il mondo animale mosso dagli istinti e il mondo umano regolato dal controllo di essi. Il premio è stato assegnato a febbraio 2020 e a marzo durante il primo lockdown questa figura del randagio, dell’animale che abita l’urbano ha subìto una svolta importante nel processo di Bastardo.
Durante la quarantena è avvenuta una transizione totale delle relazioni interpersonali. La condivisione della socialità si stava spostando dal luogo esterno alla nostra dimensione casalinga, quell’urbano abitato dai cani randagi, a un nuovo spazio esterno ma in qualche modo interno, lo spazio esteso del virtuale: l’online.
A quel punto Bastardo doveva entrare in relazione con questo nuovo luogo. Nel lavoro con le immagini in movimento c’è un momento in cui il video da medium immateriale muta in materia, è il momento in cui il lavoro esiste spazialmente e prende una forma in relazione al contesto in cui esisterà. Diventava sempre più chiaro in quei mesi che il Festival avrebbe avuto uno spazio virtuale e in quel momento è diventato necessario riflettere sullo schermo del dispositivo elettronico, PC o smartphone, come al luogo in cui Bastardo avrebbe preso forma, diventando così display del lavoro stesso».
In che modo si è sviluppato il dialogo con il tuo mentor, Adrian Paci?
«Adrian è un artista che stimo molto. È un pittore, ma lavora moltissimo con le immagini in movimento. Il dialogo con lui è stata un’occasione di confronto preziosa in cui si sono alternati momenti di intensità a distensioni poetiche delle nostre riflessioni, e uno scambio divertente di immagini di animali randagi che conservo con affetto».
Che rapporto c’è, per te, tra il randagismo e la follia?
«Ho deciso di affrontare la tematica del Festival della Peste focalizzandomi sulla figura del randagio. Il randagio è un animale da compagnia che ritorna ad una sorta di stato libero, selvaggio. Un forte processo di mutamento attivato dall’addomesticamento ha però assopito quegli istinti necessari alla sopravvivenza in assenza dell’essere umano.
Con l’immagine dell’animale randagio mi interessava affrontare la tematica dal punto di vista del controllo del sé e degli altri come forma, forse, necessaria alla sopravvivenza in una società costruita sulle relazioni interpersonali».
Quali sono i tuoi progetti futuri?
«Sto cominciando un nuovo progetto per un film, questa volta con soggetti “reali” in un mondo “reale”. Spero di essere presto sul set!».
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