Il 24 dicembre del 2019, a mezzanotte, una Collezione Oscura appare alla Pinacoteca di Brera tramite l’utilizzo di un’applicazione, costituendo a tutti gli effetti una mostra alternativa. Immateriale e multi-dimensionale, è stata donata dall’artista Luca Pozzi a Milano, sua città natale. Scopriamo insieme a lui alcuni particolari di questa esposizione parallela che rimarrà visibile al pubblico fintanto che la collezione storica sarà presente.
Con The Dark Collection hai scardinato la linearità temporale e ribaltato i punti di vista. Questa modalità di azione apre di certo una riflessione su ciò che significa fare una mostra. Puoi spiegarci in che modo è accaduto e qual è il tuo punto di vista a riguardo?
Sentivo la necessità di fare una mostra di guerriglia digitale totalmente libera che non fosse vincolata ad una fruizione temporale limitata o a problematiche economiche e politiche. Volevo che il progetto fosse connesso a uno spazio, che dipendesse da quel luogo ma che sembrasse essere stato da sempre sotto gli occhi di tutti. Ho iniziato a lavorare in questa direzione riflettendo sulla possibilità di donare alla città di Milano un’intera serie di opere e che la mostra fosse di per sé l’autenticazione dell’esistenza di questa Dark Collection, da qui il nome del progetto: una collezione oscura, come la materia oscura teorizzata dalla cosmologia multi-messaggera, che apparisse alla Pinacoteca di Brera a partire dal giorno di Natale. Di fatto non c’è stato nessun opening (la Pinacoteca era chiusa per festività) ma l’applicazione di realtà aumentata, che permette l’emersione della collezione, è stata rilasciata sul mio sito internet dal 25 dicembre 2019 e promossa sulla pagina Instagram SWAN STATION LEGACY.
Lo spettatore è presupposto insostituibile affinché l’esposizione sia possibile e visibile: il suo cellulare diviene spazio espositivo. Mettere al centro la persona, che diviene rivelatrice insieme alla strumentazione in suo possesso, è una scelta necessaria a voler rendere protagonista ogni visitatore?
Più che creare protagonismo, il progetto è pensato per evidenziare le correlazioni a distanza tra le cose al di là del tempo. Lo spettatore, come lo spazio del museo, come l’applicazione, come le sculture digitali, i capolavori di Mantegna, Heyez, Piero della Francesca, Bellini, Veronese, Canaletto e Caravaggio, sono tutte variabili emergenti intimamente connesse e per questo tutte importanti allo stesso modo, tutte ugualmente indispensabili.
L’importanza delle distanze, delle pareti di fondo e, in particolare, dello “spazio tra le opere” della Pinacoteca di Brera a Milano, sono rilevanti in questo progetto. Come sei riuscito formalmente a fare emergere tutto ciò e con l’aiuto di quale tecnologia?
Alla base c’è un’ossessione legata agli spazi topologici della geometria non commutativa implementati in gravità quantistica a loop, ma dal punto di vista tecnologico questo non c’entra nulla. Tecnicamente ho realizzato un’applicazione Android di realtà aumentata che permette di associare a dei Marker fotografici l’emersione di contenuti extra digitali. Nel caso specifico, ho convertito gli spazi vuoti tra alcune opere esposte alla Pinacoteca di Brera in marcatori di rivelazione a cui ho fatto corrispondere l’emersione di una Third Eye Prophecy: 12 profezie digitali, ciascuna cromaticamente diversa, ottenute mixando i colori delle opere tra le quali si manifestano. Sono delle palline da tennis ovalizzate dalla velocità con una pupilla esplosiva al centro. Le immagino come dei grandi occhi spalancati su fenomeni invisibili, degli oracoli che anticipano il futuro.
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