Si è inaugurata oggi alla Biennale di Venezia, all’interno del Padiglione Centrale dei Giardini la mostra “Le Muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla storia“, una mostra corale coordinata da Cecilia Alemani, prossima curatrice della Biennale Arte (in programma nel 2022) e curata insieme ai direttori in carica delle varie discipline della Biennale, Hashim Sarkis (direttore Architettura 2020, rimandata al 2021), Alberto Barbera, Antonio Latella, Ivan Fedele e Marie Chouinard. La mostra presenta documenti storici, materiali d’archivio, fotografie e filmati provenienti prevalentemente dal corposo Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC). Il titolo della mostra si riferisce alle muse greche che rappresentano le varie discipline artistiche, ma vuole anche riferirsi all’opera di Giorgio de Chirico Le muse inquietanti (1916), esposto alla XXIV Esposizione Biennale Internazionale d’Arte del 1948. Una mostra, come racconta il neopresidente Cicutto “concepita all’intersezione delle sei discipline che ne costituiscono le aree di ricerca principali, facendo dialogare eventi ed episodi della Biennale con quelli della Storia del Novecento.”
In una Biennale dai Padiglioni chiusi e i vialetti deserti, la Alemani, unica donna, poiché la direttrice danza ha un impegno all’estero, in mezzo ai cinque direttori maschi e al presidente che resterà e interverrà fino alla fine, inizia a guidare il tour dedicato alla stampa il giorno della presentazione.
Dopo la piccola hall con esposte le prime locandine della fine dell’Ottocento quando la Biennale fu fondata, troviamo due grandi sale ricche di video documentari, lettere, fotografie e documenti del periodo fascista e nazista, con foto gigantesche dove le enormi svastiche procurano un blocco allo stomaco, non sufficientemente alleviato dalle missive di annuncio di rinuncia di Stati e artisti stranieri, che preferivano non partecipare alla Biennale in quegli anni, per ragioni politiche. In tutte le sale della mostra si diffonde una particolare colonna sonora che riunisce molti brani della cosiddetta musica degenerata, quella cioè di compositori dissidenti, comunisti ed ebrei di quei decenni.
C’è una ricca documentazione di quel momento storico, perché Mussolini aveva fatto diventare la Biennale, specialmente la Mostra del Cinema, una delle sue migliori vetrine internazionali e l’Istituto Luce produsse una serie infinita di documentari che ne ritraevano i fasti e la sua stazza corposa con i suoi messaggi roboanti. Forse è per questa abbondanza di materiali o perché questa mostra inaugura quattro giorni prima della Mostra Internazionale dell’Arte Cinematografica di Venezia (che inizia ad esistere nel periodo fascista), o perché il neopresidente viene da Cinecittà, ma per farci immergere in questo materiale, si sono scelte le prime due sale.
Proseguendo la narrazione del percorso espositivo, si affronta il periodo della seconda guerra mondiale, il dopoguerra, l’arrivo a Venezia e alla Biennale di Peggy Guggenheim e della sua collezione piena di artisti americani, che arricchirà la proposta veneziana e nutrirà le menti con nuove visioni, il periodo della Guerra Fredda, ancora con documentazione interessante e anche rara, ma sempre con quel senso un po’ polveroso, che la mostra d’archivio può trasmettere. Poi finalmente si arriva alle sale che raccontano il Sessantotto e qui ci si sente più vivi. Il periodo delle contestazioni che dureranno più di un anno solare e che porteranno scontri, manifestazioni e proteste anche in piazza San Marco, ai Giardini e poi al Lido, per la Mostra Cinematografica, che addirittura verrà sospesa. Anche in questa sezione lettere, foto e documentari, per continuare poi con vari documenti degli anni Settanta, sempre di tutte e sei le discipline fino ad oggi, cioè ieri perché l’oggi non si racconta ancora.
Il progetto vuole testimoniare come, attraverso i suoi 125 anni di attività, anniversario che ha sollecitato l’idea di questa mostra, la Biennale di Venezia abbia presentato e valorizzato il lavoro di innumerevoli artisti, registi, coreografi e musicisti e abbia testimoniato attraverso le loro opere, alcuni dei più importanti movimenti artistici dell’ultimo secolo, sdoganando le trasformazioni più radicali, nelle arti visive, nel cinema, nel teatro, nella musica e nella danza, ma, la narrazione prettamente storica, rende il risultato piuttosto ibrido.
La Biennale si è ritrovata a fare i conti con la storia nelle sue incarnazioni più reali ed è stata, suo malgrado, palcoscenico per manovre di potere e alleanze politiche, ma è stata anche autorevole testimone dello spirito politico e sociale delle avanguardie artistiche ed intellettuali, oltre che la più importante manifestazione internazionale per le sue varie discipline.
In questa mostra molti protagonisti sono stati nominati, ma la maggioranza degli artisti naturalmente no. Assenti anche i testi critici che forse potrebbero sostituire qualche lettera di prenotazione dei padiglioni, da parte delle segreterie delle ambasciate straniere.
La questione sulla quale forse bisognerebbe riflettere ora, è che la Biennale di Venezia è un organismo vivo, pulsante, che testimonia il presente e progetta il futuro attraverso le espressioni artistiche più intelligenti e di qualità ed è un po’ anomalo e fuori contesto, vederla così raccontata, attraverso dei documenti, delle lettere, dei documentari, che non ne restituiscono lo spirito.
La Biennale è un insieme di forze vitali in continuo movimento, intercettatrice del respiro sociale, politico e artistico contemporaneo internazionale, perciò vederla riassunta a grandi linee, pur attraverso documenti attendibili, nei suoi rapporti con la storia politica, ora che la manifestazione è ferma, come addormentata, ma non morta, perché non morirà, e farlo proprio lì, nella sua sede, che, da oltre un secolo, é il fulcro della contemporaneità mondiale, può senz’altro lasciare perplessi.
Nel Padiglione Centrale, che per statuto e tradizione etica deve essere vivo, provocatore e stimolante e che deve avere lo scopo di porre delle domande, attraverso le opere d’arte che presenta, raccontando la nostra contemporaneità, è strano trovare un qualcosa che parla di un passato in modo anche piuttosto didascalico, ci fa forse domandare solo il perché sia stata fatta lì. Perché questa mostra non è nelle finalità che i fondatori e i presidenti si erano posti per la Biennale, fino a Baratta, né quello che, lì, noi che la amiamo e che ce ne nutriamo, vorremmo trovarci. Probabilmente sarebbe stato più opportuno allestire questa bella e interessante mostra d’archivio, prodotta con scrupolo e professionalità, in un altro spazio della città, in modo permanente e aggiornandola di continuo, ma qui al Padiglione Centrale dei Giardini, a pagamento (12 euro), ha molte probabilità di perdere il suo significato o di non riuscire a legarsi al significato stesso della Biennale.
La pandemia ancora in atto ci deve far riflettere senz’altro su molte cose, anche su come sarà il nostro futuro, di cosa avremo voglia e necessità di incamerare o produrre, come potremmo sollecitare un nuovo pensiero, un nuovo paradigma sociale ed economico. L’arte è dentro tutto questo e l’attività ai Giardini ricomincerà quando si potrà ricominciare, perché cambiare genere di pubblico proprio alla Biennale di Venezia, che ci ha sempre spinto a pensare e, se non altro per questo, abbiamo il dovere di tutelare?
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