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Una camera picta, per indagare lo spazio come “dispositivo”
Arte contemporanea
“La reinvenzione, attraverso l’uso delle immagini, di uno spazio chiuso, fisicamente circoscritto e di per sé muto, è pratica antichissima, ancestrale. […] Accanto al quadro, oggetto che sappiamo ebbe ampia diffusione in tutto il mondo antico […], la pittura parietale accompagna costantemente la nostra evoluzione storica. Dal palazzo pubblico all’architettura funeraria allo spazio domestico, essa diversifica le sue forme e le sue funzioni. La camera picta, in tal senso, è ovunque. Ma accanto al valore rituale, celebrativo, propagandistico o squisitamente decorativo, la stanza dipinta manifesta sempre una dimensione comunicativa più complessa, o quantomeno sottilmente ambigua e aperta sul piano interpretativo” (F. Mazzonelli)
Inizia così l’ambia ricognizione di Federico Mazzonelli, curatore insieme a Margherita de Pilati e Gabriele Lorenzoni, della mostra “Camera Picta. Site specific tra oggi e domani” in corso fino al 12 settembre alla Galleria Civica di Trento. Nel suo saggio in catalogo Mazzonelli esplora l’evoluzione del rapporto tra immagine e spazio dalle Grotte di Lescaux o Altamira alle sale ovali dell’Orangerie a Parigi passando per la Villa di Livia a Prima Porta, la giottesca Cappella degli Scrovegni a Padova, la Camera degli Sposi del Mantegna a Mantova, la Stufetta di Fontanellato del Parmigianino nel parmense, senza dimenticare naturalmente il Ciclo dei Mesi di Torre Aquila, uno dei capolavori custoditi dal Castello del Buonconsiglio a Trento, affrescato tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento dal Maestro Venceslao e considerata una delle più interessanti camere picte del Gotico internazionale, offrendo così un inquadramento storico complesso a una mostra che si propone di sottolineare quel principio di continuità e rinnovamento che nell’arte trascende i secoli facendone linguaggio universale e senza tempo. “Un dialogo tra antico e contemporaneo non solo è fattibile, ma addirittura risulta proficuo e stimolante. Nei giovani si ritrovano i vecchi maestri, le stimolazioni, gli studi” commenta Margherita de Pilati.
Così il progetto espositivo mette per la prima volta a sistema proprio il Castello del Buonconsiglio e la Galleria Civica di Trento in un dialogo tra storia e contemporaneità ricca di contaminazioni e di riflessioni possibili.
La riflessione critica e curatoriale parte dal Buonconsiglio e dall’osservazione dell’opera del Maestro Venceslao: il Ciclo risulta privato del mese di marzo, andato perduto durante un incendio ed è proprio immaginando di colmare questa lacuna che Mazzonelli ha suggerito di avviare una nuova riflessione sul concetto di camera picta per verificare come nella ricerca attuale e dopo un secolo -il Novecento- di sperimentazioni sui media e sulla deflagrazione dell’opera nello spazio, si possa pensare oggi il rapporto tra arte, contesto ambientale/architettonico e fruitore.
Il team curatoriale ha così invitato, Francesco de Grandi, a realizzare una tela per il Buonconsiglio, un’opera che non andasse semplicemente a colmare il vuoto lasciato dall’incendio nel Ciclo del Maestro Venceslao, ma che desse una nuova interpretazione e un nuovo significato al mese di marzo, ridefinendo attraverso il mezzo della pittura i confini tra reale e immaginifico, impianto compositivo e disseminazione simbolica di codici socio-culturali, attingendo così a un modus operandi che è quello della tradizione ma in veste del tutto inedita, contemporanea.
Alla Galleria Civica di Trento, invece, gli autori invitati sono otto, scelti dal panorama artistico nazionale e chiamati a realizzare altrettante camere picte. Otto autori per otto ambienti del museo, trasformato attraverso una moltiplicazione di linguaggi in uno spazio immersivo, in cui lo spettatore è invitato a operare un viaggio di scoperta e meraviglia, stanza dopo stanza.
La mostra apre con Barra (Francesco), 2021 di Francesco Arena, una presenza ieratica collocata nella corte esterna della Galleria: il riferimento è al “tema della colonna, che regge e genera un’architettura immaginaria, che connette il cielo al centro della terra”. Una barra di bronzo dorato galvanizzato di 10 cm che ha la stessa altezza dell’artista e che reca incise due frasi, una dal basso verso l’alto e l’altra dall’alto verso il basso: “LA SESSANTAMILADUECENTOQUARANTESIMA PARTE DELLADISTANZA TRA QUI E LO SPAZIO” e “LA TREMILIONIOTTOCENTOVENTINOVEMILACINQUECENTODICIOTTESIMA PARTE DELLA DISTANZA TRA QUI E IL CENTRO DELLA TERRA”.
All’interno, il lavoro audio di Fabrizio Perghem immediatamente ridefinisce il concetto di spazio immersivo, invitando a un’esperienza che si fruisce con l’udito, e non con la vista. Una camera picta, quella di Perghem, che si può esplorare a occhi chiusi per venire immediatamente trasportati nelle cavità delle montagne della Marmolada: in 26.03.21|12:36|Marmolada, 2021, parte di un più ampio progetto a lungo termine, l’artista indaga infatti le potenzialità del suono come strumento utile a cogliere gli aspetti scultorei di interni naturali, sfruttando una tecnica utilizzata dai non vedenti per orientarsi nello spazio.
Lo stesso ambiente, la prima sala del museo, è abitato dalle ariose, leggere vernici di Stefano Arienti: tre opere studio per Fra gli Alberi (Museo Kartell, Noviglio – Milano 2015) che creano uno spazio quasi zen in cui lo sguardo riposa. Un po’ come accadeva per i giardini dipinti nel ninfeo sotterraneo della villa di Livia: un gioco ambiguo tra dentro e fuori, tra spazio architettonico e spazio naturale, che in Arienti non asseconda, naturalmente, nessuna volontà di rappresentazione mimetica del reale, preferendo invece accennare a uno spazio del pensiero, tracciato appena con la vernice oro su comuni teli antipolvere bianchi.
Da uno spazio percettivamente aperto si passa poi a uno spazio chiuso, quasi claustrofobico, costruito dai light box di Andrea Mastrovito. Un’opera su cui soffermarsi ore in un lento processo di decodificazione a più strati che va dall’esplorazione del materiale (una maniacale giustapposizione di righelli di plastica colorata) e della perizia tecnica del disegno a matita litografica, alla lettura di una narrazione per immagini che per raccontare “la melancolia dell’uomo invisibile”, per parafrasarne il titolo, attinge a una serie numerosissima di riferimenti visuali mescolando ambiti colti con l’immaginario popolare, l’antico con il contemporaneo, in una sovrapposizione che unisce i solidi platonici a episodi di violenza da stadio, l’approccio rigoroso e scientifico di Dürer nell’analizzare le vicende politiche e sociali della sua epoca, con l’accenno allo stile violento e diretto dei Sodom, gruppo musicale thrash metal che insieme a Kreator e Destruction, è considerato tra i capofila del genere in Germania.
In un continuo cambio di atmosfere e di temperature, subito dopo incontriamo le tele Federico Pietrella, che pure si dedica a un ciclo dal sapore narrativo, un racconto autobiografico per immagini che documenta circa un messe della sua vita, dall’8 marzo al 2 aprile 2021, il periodo dedicato alla realizzazione dei lavori per la mostra, ma lo fa con quella volontà di esplorare il rapporto tra costruzione dell’immagine e modalità della percezione, che è da sempre sua cifra stilistica e principio operativo.
Al piano interrato la mostra continua con Benni Bosetto, Esther Stocker e Alessandro Piangiamore. La prima recupera il concetto di colonna, ugualmente introdotto da Arena, come elemento che grazie alla sua mera presenza genera uno spazio fisico e concettuale, ma la trasforma in centro generativo di un’installazione ambientale che assume le vesti di una specie di albero della cuccagna, una giostra di nastri e lustrini che rievoca una dimensione rituale ancestrale: “Oggi il tempo nel regime neoliberista non è più stabile e non sente più la necessità di credere ed avere fiducia nel rito e nel simbolo. ‘Rituale’ è diventata una parola imbarazzante. Una società atomizzata, guidata dall’impulso, vuota, sempre più dedita alla narcisistica passione per il sé, non sente il bisogno della comunità, della ritualità e delle cerimonie le quali hanno la caratteristica di scandire il tempo in un ordine accasante e protettivo. Il mondo necessita di essere reincantato attraverso un’azione seduttiva e magica”. Sembra citare le parole del filosofo coreano Byung-chul Han, la Bosetto, e contemporaneamente propone un simbolo ad arginare questa “scomparsa del rito” e di tutto ciò che esso rappresenta dalla nostra società: la sua colonna è un albero, un perno, l’immagine simbolica di “un luogo che porta al legame, alla chiusura, alla raggruppamento, contrapponendosi all’attuale situazione sociale e politica che abolisce qualsiasi elemento vada in direzione opposta rispetto all’incremento della produzione, della merceficazione”.
Alla camera picta baroccheggiante della Bosetto si contrappone lo spazio minimale di Esther Stocker, che si conferma maestra nella trasformazione percettiva di un ambiente architettonico mediante illusioni prospettiche ottenuto con il minimo dei mezzi. Il suo sguardo analitico è interessato precisamente a quella che lei stessa definisce “geometria dell’esistenza”: le modalità attraverso le quali persone e cose si posizionano in una stanza e generano così spazio tra e intorno a loro. A Trento costruisce una sorta di wormhole, di portale fantascientifico alla 2001: Odissea nello spazio, che amplifica gli spazi della Galleria e invita il fruitore a un attraversamento sia fisico che della percezione.
La mostra si chiude con Alessandro Piangiamore e la sua camera picta che rovescia l’idea di partenza lavorando a una sorta di karesansui (giardino secco giapponese) con cui riscatta la neutralità architettonica del pavimento. Un suolo che non si può calpestare o percorrere, se non con lo sguardo, nello sfumare e collidere di terre e pigmenti, di nuances e colori.
Così “Camera Picta. Site specific tra oggi e domani” articola una riflessione tutt’altro che scontata sulla concezione di spazio in quanto dispositivo (più che luogo espositivo), che pur partendo dallo spunto storico del Buonconsiglio e volendo con esso creare una relazione che sicuramente si presta come veicolo di relazione tra antico e contemporaneo, riesce infine a centrare l’attenzione sul significato della ricerca attuale facendone precisamente una “questione di linguaggio”, per citare Lorenzoni, che spiega: “gli otto artisti in mostra si avvicinano con il loro bagaglio tecnico, formale e culturale allo spazio neutro della Galleria, consapevoli della storia dell’arte e dell’opera di Maestro Venceslao, ma anche che il loro teatro d’azione è l’oggi”.
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