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Una danza di vivente e virtuale: Memmola e Pugliese nelle Chiesa di San Severo, a Napoli
Arte contemporanea
Fino al 15 novembre, nella Chiesa di San Severo al Pendino, è visitabile GIATA TAM VIVIS – Ero così felice di essere in vita, progetto promosso dall’associazione Quartiere Latino e curato da Marta Ferrara, nell’ambito dell’avviso pubblico dell’arte contemporanea del Comune di Napoli. Per l’occasione, due artisti della collezione permanente del condominio-museo in via Domenico Cirillo, Lucas Memmola e Roberto Pugliese, sono intervenuti direttamente nel tessuto urbano napoletano, in uno dei luoghi più emblematici della contaminazione tra passato, presente e futuro: la Chiesa di San Severo al Pendino.
Il titolo della mostra deriva da un frammento latino, rinvenuto nella zona absidale della chiesa, a cui i linguisti non riescono a dare un senso compiuto. Affidando l’interpretazione a sistemi di traduzione online, la frase è forzosamente traducibile come «Ero così felice di essere in vita». La misteriosa e incerta natura del frammento, forse un ex voto o un’epigrafe commemorativa, è un’occasione per riflettere artisticamente sul legame tra vita, vivente e virtuale.
La prima opera, posta nello spazio antecedente all’altare maggiore, è Industrial Equilibrium di Roberto Pugliese. Essa consiste in due bracci robotici, nati a scopo industriale, che sinergicamente dialogano, danzano oppure lottano, mediante l’uso di un software di intelligenza artificiale. All’estremità dei bracci sono inseriti, rispettivamente, uno speaker e un microfono che generano un cortocircuito perenne dovuto all’effetto Larsen. Entrambi i dispositivi, di colore nero, coronano i due corpi bianchi e, nell’insieme, l’opera ricorda dei cigni in procinto di accoppiarsi o, comunque, le movenze paiono ricalcare alcune dinamiche relazionali di questi uccelli.
Emerge una continuità, seppur paradossale, tra il virtuale e il vivente, come se il primo non possa generare una sua propria grazia senza il ricordo del secondo. Eppure, la coreografia, particolarmente suggestiva, a tratti commovente, fa sì che lo spettatore, per un’istante, dimentichi di essere dinanzi a delle semplici macchine. L’effetto di straniamento, a sua volta empatico, è amplificato dalla trama sonora prodotta dall’opera, il cui andamento armonico coesiste con una ricerca di possibile equilibrio tra i movimenti dei due bracci.
Davanti e intorno, l’opera è in relazione con l’intervento artistico, dal titolo Daphne, di Lucas Memmola. Al centro della navata unica e nelle nicchie delle cappelle laterali è esposto un complesso di sculture raffiguranti tronchi, rami, foglie e fiori solidificati tramite un processo di galvanizzazione con rame. Ciò che è naturale, quindi naturalmente mutevole, viene fissato dall’azione dell’artista che, ragionando sull’idea della trasformazione del mito greco, ci dà occasione di riflettere sul cambiamento come qualità profondamente umana. Nulla resta, ma tutto passa.
Qualcosa però diviene traccia. Spettro del naturale nel virtuale – il caso dell’opera di Pugliese –, e fantasma dell’artificiale nel vegetale – come suggerito da Memmola –, il senso della traccia quale elemento ricorrente, e nondimeno sempre superato, è amplificato dal contesto espositivo. Infatti, la Chiesa di San Severo al Pendino è il luogo ideale in cui iniziare questa riflessione, considerando che la sua immagine attuale è frutto di una serie di stratificazioni e rifacimenti. Fondata nel 1448 con il nome originario di Santa Maria a Selice, tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento, la chiesa venne demolita e ricostruita. Nel 1818 la struttura fu utilizzata come prima sede dell’Archivio di Stato ma, subito dopo, con il ritorno dei religiosi, al complesso fu ridata un’immagine ecclesiastica. Danneggiata dal terremoto del 1980, la chiesa è stata restaurata, riconducendola alla sua architettura originaria.
Stratificazione, traccia e solidificazione sembrano essere dunque le parole d’ordine del luogo e delle opere pensate per esso, istruendo lo spettatore o il passante ignaro che, parafrasando Simone Weil, nulla di ciò che è umano dovrebbe apparirci estraneo.