Sin dagli esordi la ricerca artistica di Leonardo Petrucci è stata indirizzata all’approfondimento di tematiche come la geometria sacra, l’alchimia, la cabala, l’astrologia e la fisica quantistica.
Abbiamo incontrato l’artista nel suo studio presso il Pastificio Cerere di San Lorenzo a Roma, dove lavora dal 2012, per ripercorrere l’ideazione di questo ultimo progetto che, in linea con la filosofia di Pesaro Capitale italiana della cultura 2024, ha indagato e approfondito il rapporto tra arte, natura e tecnologia.
Una questione di spazio copre, di fatto, l’intero arco del tuo percorso artistico. In mostra ci sono opere legate alle tue prime ricerche, come quelle sugli origami, che risalgono al 2011, per arrivare poi alle ultime sperimentazioni come quella dei video creati con l’intelligenza artificiale. Black Comet, una colonna di origami realizzata per l’occasione è stata ora acquisita permanentemente dal Museo di Pesaro. Il titolo della mostra ci appare quasi come una trasposizione dell’usuale frase “è una questione di tempo”. Come si lega nella tua ricerca la dimensione dello spazio a quella del tempo?
Leonardo Petrucci: Questa mostra è stata una sorta di linea che ho voluto tracciare, una linea spaziale. Spazio-tempo sono i due grandi temi che affronto da vari anni. Non a caso la mostra del 2019 alla Galleria Gilda Lavia si intitolava proprio “Once Upon a Time”, una mostra dedicata al tempo. Mi piaceva pensare di fare una sorta di capitolo secondo rispetto a quel progetto con Gilda Lavia, spostandomi dal cortocircuito temporale a quello spaziale e lavorare sull’idea di spazio non solo nella concezione di spazio cosmico ma anche come spazio geografico. Non da ultimo quasi tutti i miei lavori riflettono sulla questione astronomica.
Con il primo nucleo di lavori, Red Hope, progetto che gode del patrocinio della NASA, hai presentato una serie di tappeti di lana frutto della manodopera di maestranze operose in villaggi attorno a Varanasi, nell’Uttar Pradesh, nel nord dell’India. L’idea rievoca il processo ideativo degli arazzi di Alighiero Boetti realizzati da donne afghane, nati per essere affissi su delle pareti. I tuoi tappeti, esposti in terra, in orizzontale, nascono con un connotato non casuale, la calpestabilità. Com’è nata questa idea?
«Red Hope nasce, come idea, nel 2015 ed è stato poi esposto al pubblico nel 2017 da Zinouzi Tapì, negozio storico di tappeti persiani che sta in centro a Roma. L’idea era nata da un’azione pioneristica: quella di poter calpestare per la prima volta il suolo di Marte trasponendo l’immagine originale fotografica che il rover Curiosity della NASA scatta alle porzioni di suolo marziano dopo averne perforato le superfici rocciose. Tutti i tappeti hanno al centro questo cerchio che altro non è che un dettaglio del suolo che è stato perforato dal rover. Mi piace pensare ai concetti spaziali di Lucio Fontana. Anche noi abbiamo creato dei concetti spaziali su Marte perforando la superficie esattamente come faceva Lucio Fontana. Ho selezionato solo le immagini delle trivellazioni del rover Curiosity i cui interventi mirano ad approfondire la composizione chimica del pianeta e ho scelto proprio queste perché hanno una valenza simbolica. È un progetto che porterò avanti fino a che l’essere umano non metterà piede su Marte. A quel punto non avrà più senso creare tappeti calpestabili che ti portano su quel pianeta».
Con Tessitura Cosmica hai presentato degli arazzi che riproducono le texture extraterrestri presenti sulle meteoriti ferrose. Che rapporto c’è con il progetto Red Hope che presenta ugualmente delle superfici tessili?
«La posizione spaziale dei tappeti di Marte è orizzontale, quella degli arazzi è verticale. Sono due progetti che dialogano perfettamente per la questione di spazio e allo stesso modo sono opposti sia per posizione che per tempo. Il tappeto di Marte è un oggetto artigianale realizzato in tanti mesi di lavoro che proviene da una fotografia scattata in un istante poi mandata sulla Terra. Gli arazzi che riproducono il pattern delle meteoriti ferrose sono realizzati in poche ore con telai jacquard, macchinari automatici. Le immagini però provengono da meteoriti che per formarsi ci hanno messo milioni, se non addirittura miliardi di anni».
Del tutto inedito, il terzo corpus di opere Panspermia, propone un repertorio di quasi trenta pitture ad olio su tela raffiguranti visioni di cadute di meteore sul pianeta Terra. A quale filone di ricerca si legano queste tue creazioni?
«Ho iniziato questi lavori durante la pandemia e li ho interrotti nel 2021. Il discorso della meteora che cade sulla terra è strettamente legato alla visione della melanconia, Melencolia I di Albrecht Dürer, un’incisione che presenta sullo sfondo una cometa, a mio avviso, una meteora. L’essere umano è in contemplazione di questo corpo celeste che sta impattando il pianeta. È una fascinazione che si perde nel tempo. Mi piaceva rappresentare questi squarci nelle tele, nel cielo e qui ritorna Lucio Fontana, il concetto spaziale non come perforazione ma come taglio. Tutte queste diagonali provengono sempre dalla stessa direzione dall’alto a destra al basso a sinistra annullandone però sia lo spazio che il tempo».
Il riferimento alla teoria che ipotizza la vita sul Pianeta a seguito di impatti meteoritici, richiama fortemente il dualismo tra Eros e Thanatos, tema che torna in un’altra serie di lavori, non in mostra a Pesaro, dove ricorre la figura della mantide religiosa. Questa specie animale, che compare sin dalla tua prima personale del 2011 con Bruno Ceccobelli nella galleria di Pino Casagrande che allora aveva sede al Pastificio Cerere, è diventata un simbolo ricorrente nella tua pittura. Nel 2014 per la tua mostra Antropofagia Simbiotica presso Operativa Arte Contemporanea a Roma diretta da Carlo Pratis avevi proprio allevato ed esposto vive delle mantidi religiose. Da cosa nasce l’interesse per questa specie di insetti e come sono reinterpretati dall’intelligenza artificiale?
«Con il supporto dell’intelligenza artificiale ho reinterpretato dei capolavori del passato il cui tema era legato alla natura della mantide religiosa con il riferimento al cannibalismo o alla decapitazione. C’è Giuditta che decapita Oloferne di Caravaggio e Saturno che divora i suoi figli di Rubens. La mantide è diventata per me un simbolo ricorrente da parecchi anni. Questo insetto ha una natura cannibale: la femmina che divora il maschio durante l’accoppiamento è la sintesi perfetta della fusione alchemica. Tutto passa attraverso la mortificazione alchemica, la “nigredo”. Nel mondo alchemico c’è uno slittamento rispetto alla cultura occidentale: nell’alchimia la morte e la mortificazione sono al primo posto. Nasce tutto dallo stadio apparente della morte. Senza quell’atto cannibalico e senza l’uccisione le future mantidi non potrebbero esistere. In realtà anche la femmina muore subito dopo aver deposto la sacca di uova. È un duplice sacrificio, prima del maschio e poi della femmina. Ecco qui che ritorna il rapporto tra “Eros e Thanatos».
Per la Terza Edizione della Fiera Internazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma Arte in Nuvola, tenutasi lo scorso novembre, hai presentato con la Galleria Gilda Lavia L’origine del mondo, rievocativa nel titolo della celebre opera di Gustave Courbert L’Origine du Mond del 1866, conservata nel Musée d’Orsay a Parigi. La tua opera presenta una tenda sulla quale compare uno schema decorativo con mantidi religiose elaborato attraverso l’intelligenza artificiale, tenda che cela un disegno raffigurante lo stesso soggetto. È un dialogo inedito tra tradizione e nuove tecnologie. Intendi approfondire questo legame nei tuoi progetti futuri?
«Ho in mente di realizzare tutta una serie di pitture di mantidi religiosi come se fossero dei soggetti rinascimentali che fuoriescono dall’ombra. Le immagino di un verde scuro su fondo nero coperte da tende create con l’intelligenza artificiale che presentano delle texture con delle foglie. Mantidi che si celano dietro a foglie tropicali che a loro volta, se viste da lontano, ci ricordano figure di teschi richiamando il tema della morte della mantide».
Tra i lavori conservati nel tuo studio, non esposti in mostra a Pesaro, ci colpisce in modo particolare Omphalos (2011). Si tratta di una delle tue prime creazioni realizzata con piombo, acrilico e grafite su tavola rappresentante un percorso grafico, nel cui centro è collocato un piccolo corpo tridimensionale, dal profilo ottagonale, rievocativa della geometria cristallina di antichi disegni quattrocenteschi come quelli presenti nel trattato di Luca Pacioli De divina proportione (1498, Milano, Pinacoteca Ambrosiana). Quali ricerche sono a presupposto della realizzazione di questo tuo lavoro?
«L’opera rappresenta il tesseract. Il tesseract è l’ipercubo, la rappresentazione bidimensionale di un cubo sviluppato nella quarta dimensione. È lo sviluppo di un cubo che esiste e vive nello spazio-tempo e che si compone da otto cubi che si compenetrano. Esistono varie rappresentazioni, ad esempio Dalì ha realizzato la Crocifissione di Cristo sospeso di fronte ad un ipercubo. È una croce che si sviluppa tridimensionalmente in tutte le assi della profondità, dell’altezza e della lunghezza. Non è altro che un cubo nella quarta dimensione».
Il tentativo di rappresentazione della quarta dimensione, evocato efficacemente dalla spettacolare Crocifissione (Corpus Hypercubus) di Salvator Dalì del 1954 conservata al Metropolitan Museum di New York richiama una delle scene di Interstellar (2014) film diretto da Christopher Nolan. Nel corso di una spedizione spaziale Cooper, il protagonista, cadendo nella tana del tesseract, si ritrova in un punto corrispondente alla libreria della sua casa che gli permetterà di comunicare di nuovo con sua figlia Murph rimasta sulla Terra. Così in questo spazio a quattro dimensioni Cooper e Murph trovano delle risposte alle loro domande coerentemente con quanto vuole suggerire Petrucci attraverso la ricerca della sua mostra, appena conclusa, Una questione di spazio “forse le risposte alle nostre domande non risiedono nel passare del tempo ma nello spazio”.
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