Questo territorio é prima di tutto l’idea di uno spazio percorribile, delimitato dai processi e dalle opere che lo generano, nel lavoro di tre artisti di età, origini e racconti molto diversi.
Un non-site, simile all’Hotel Palenque descritto da Robert Smithson alcune decadi orsono. Un ’idea di Nord intravista, nel momento in cui si smantella la socialdemocrazia di un paese, la Norvegia, e con essa i suoi simboli. La demolizione recente dell’Y-Blokka a Oslo ed il trasloco del suo murales di Picasso (The Fisherman) rimosso dal sito originario ed in attesa di collocazione, testimonia di una precisa volontà chirurgica. Un prelievo, una decostruzione. La pratica degli artisti propone invece un attitudine fondante, qualcosa che non é uno sguardo folklorico ma antropologico.
Alcuni anni fa ho sognato e sperato che l’ edificio brutalista Y-Blokka, ora demolito, diventasse un nuovo museo, il sito per il nuovo Munch Museet. Un non monumento, per lo sfregio dell’orrore del gesto terrorista ad Utøya, quello di un suprematista bianco all’ordinata idea di integrazione. Solo l’arte é in grado di curare ferite mortali.
Tre artisti norvegesi di fama internazionali che qui operano da anni, hanno insegnato, con il loro lavoro molte cose su questo paese. Sono rabdomanti, hanno indicato le fonti, attraverso spostamenti, tessiture e collage leggeri, un sodale legame con il luogo. La possibilità di contemplare e vivere un nuovo paesaggio, che pur essendo specifico non é tricottato nei motivi canonici della naturalità scandinava. Una psicologia in contatto con la diversa verità del respiro ancestrale del fare arte, in contesti difficili eppure sensibile e tellurica nelle procedure. Attraverso le loro opere, la nuova filosofia della cultura norvegese figlia della ricchezza generata dal petrolio, non coincide più con la retorica culturale del paese. Con la materia prima del lavoro di Frida Orupabo, la realta si ricompone in un algido bianco e nero, da poco puntellata da interventi minimali di colore preciso. Il reale si riagglomera nella drammaticità della sua ricerca che attinge dal web motivi e icone, come preparato in una sospensione chimica in laboratorio. Una condizione artificiale di chi studia fenomeni in luoghi remoti per registrare i mutamenti dalle condizioni più estreme. Così la costa Ovest di questo paese ed il paesaggio nordico escono finalmente dalla dimensione da cartolina. È qui che affondano le radici, le estrazioni di motivi e la ricerca che sono alla base dei lavori Marianne Heske e Lars Laumann.
Disegnano, a mio avviso, la nuova cartografia di un paese dilatato. Questi tre artisti maneggiano materiali sensibili con immagini potenti, di nuove identità, generi ed una politica di non appartenenza a nessun luogo. A questo li ha portati, negli anni la creazione di immagini capaci di curare una miope idea del Nord. Artisti celebrati che restano controversi nel loro paese.
Un caposaldo, sempre spendibile della cultura artistica norvegese é la figura supereroica di Edward Munch. Ora ha un ipertrofico nuovissimo museo, ed é qui che probabilmente si diluiranno in dose omeopatiche le cure prodigate da Munch più di un secolo orsono al provincialismo di una nazione, ora obnubilata da sogni global per la cultura. Edward Munch é un fantastico teaser ed ha finalmente sostituito Gustav Vigeland. La malinconia di Munch trionfa sul machismo fascistoide di Vigeland e del suo giardino di sculture a tema. Le grandi navi da crociera si fermeranno al porto ed il parco di Frogner verrà probabilmente abbandonato dal flusso turistico. È uno scenario. Lo studio di Munch a Ekely o il Museo Vigeland diventeranno camei cult, in un vecchio film scandinavo in bianco e nero. Esiste un sogno culturale di questo paese, con le sue Biennali che investono sull’effimero e sull’immateriale? Questa riflessione é una sorta di gris-gris, che ci aiuta a vederlo ad occhi aperti, attraverso I collage di Frida Orupabo, i reperti di Marianne Heske, i films e gli interventi di Lars Laumann.
In un mondo che si muove su un ritmo diverso, che cerca vie d’uscita da una pandemia, in uno stato in fondo poco toccato dalle tragedie della globalizzazione ma molto attento ad ogni suo evento. Un paese sismografo, primo della classe per la concezione ecologica del futuro del pianeta e che lascia ai suoi artisti il tempo per pensare. Le opere di questi artisti interagiscono per creare un momento di sospensione per lo spettatore. Ogni loro oggetto ed ogni lavoro é dotato di un mana di una proprietà curativa o evocativa. Seppure estremamente concettuale, la loro arte opera attraverso materiali autoctoni. Penso alla barca di Ludwig Wittgenstein che Marianne Heske ha riesumato a Skjolden, i rumori da lei registrati all’interno di un rompighiaccio su una rotta artica e rediffusi all’esterno della Kunsterneshus chiusa a causa della pandemia, mescolando spazi fisici e mentali. Come i corvi della mitologia nordica, le case in fiamme, le coppie sui letti sfatti di Frida Orupabo che alimentano le suggestioni oniriche nella chirurgia dei suoi collages. Un lavoro come Season for the migration di Lars Laumann, riscrive abilmente i diari di migrazioni antiche e dolorose, le innesta su quelle contemporanee che ci parlano di integrazioni difficile a volte quasi impossibili. Preleva figure in pietra come quelle delle docce della cattedrale di Trondheim e le affida allo streaming ed ai ritimi della visione contemporanea. Riattualizza un defilée di moda, che é costato l’esilio al suo designer e ci introduce ad una dimensione rovente, decisamente più calda delle correnti dal Sud che confortano le coste del paese. Alimentano un pensiero non allineato a queste latiitudini.
Tanti sono i loro lavori che balzano alla mente e che possono nella contiguità di una narrazione definire, una posizione geografica come luogo più che specifico. Ma non é l’aspetto esteriore, non esiste decorazione nella loro pratica. C’é un punto cardinale ridefinito, solo dall’immediata contemporaneità della loro ricerca. Lo si può descrivere unicamente con un grande scarto concettuale ed é questo che interessa.
Punti di vista diversi, di artisti indispensabili, per comprendere il mondo da quella che fu la Ultima Thule. Più che un progetto, qualcosa di percepibile in un universo settentrionale ridefinito, nella sua melancholia. Questi artisti cercano da anni una medicina necessaria. Quella di chi cura spostando frammenti di montagne, di chi ricuce corpi ed anime.
Nel disegno di fondo tra il trolls ed il vodoo c’é solo di mezzo la discesa agli inferi del Peer Gynt. Al white cube, essi hanno sostituito piuttosto la scena primaria di una casa di bambola con cui giocano per contraddire l’infantilizzazione del nostro immaginario. Un’arte profonda che esiste al di fuori delle vicende autoreferenziali del marketing artistico. Un personalissimo Nord, al di fuori della bussola impazzita del percorso formattato del contemporaneo. Occorre credere nel futuro progettuale di questi artisti, che continuano a guardare al nostro tempo come ad una geografia esistenziale senza confini.
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