01 aprile 2024

Uno Bis, a Padova apre un nuovo spazio per la ricerca artistica emergente

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Studio condiviso per le ricerche emergenti, luogo di contaminazione per l’arte contemporanea: Uno Bis riapre le sue porte a Padova con una mostra di opere site specific

SPAZIO UNO BIS, Padova
SPAZIO UNO BIS, Padova

Negli ambienti di una vecchia fabbrica di macchinari enologici, il 22 marzo 2024 si è tenuta 8/60, mostra che inaugura la nuova stagione di Uno Bis, primo spazio indipendente di ricerca e sperimentazione artistica di Padova. È formato da un gruppo di giovani artisti: Martina Biolo, Chiara Bonetti, Maria Vittoria Garbin e Nicola Sturm, Riccardo Lodi e Greta Fabrizio (Enzo e Barbara), Elena Lucenti e Luca Buratti (Prove Colore) e prende il nome dal numero civico in cui si trova lo studio.

Uno Bis è stato fondato nel 2020, tuttavia, «Nell’ultimo anno – spiegano gli artisti – grazie a un percorso di formazione con l’artista padovano Marco Maria Zanin, l’esigenza di strutturare un ambiente adeguato alla divulgazione artistica ha avviato un processo di formalizzazione e rinnovamento. Lo scopo, a quel punto, è diventato anche quello di instaurare scambi e dialoghi legati all’arte contemporanea e al suo ruolo all’interno della comunità – cosa che ci ha spinto a ricercare un rapporto con la realtà padovana di designer OpenOpen, con cui abbiamo iniziato il progetto dell’identità visiva di Uno Bis».

SPAZIO UNO BIS, Padova
SPAZIO UNO BIS, Padova

Uno Bis, esperienze di ricerca site specific a Padova

8/60, dunque, è il punto di partenza di questa nuova fase del collettivo e descrive il processo abitativo che i membri di Uno Bis praticano quotidianamente. Otto sono i componenti dello spazio e 60 sono i metri quadri dell’area espositiva analizzati. La mostra, visitabile fino al 7 aprile 2024, non ha una tendenza dominante ma ha l’intento di valorizzare lo spazio di Uno Bis, inteso come ambiente di lavoro, realtà collettiva e luogo fisico.

Artisti di Uno Bis, Padova

Il gruppo infatti raccoglie esperienze molto diverse tra loro, che tuttavia si armonizzano in una vasta area di ricerca contemporanea e trova la sua ragion d’essere proprio nello spazio che condividono. In mostra, viene quindi proposto un percorso scandito da cinque opere site specific che popolano spontaneamente il luogo e che rivendicano la loro familiarità e intimità con esso, con l’obiettivo di suscitare riflessioni sulle sue caratteristiche specifiche.

 

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Così, accanto all’installazione Le linee di costruzione sono sempre più sottili di Martina Biolo, intrisa di una forte valenza materica, si affiancano Non me ne vado, strumento impossibile di Chiara Bonetti che permette di farci ascoltare la voce della polvere e La Stanza Rossa del duo Enzo e Barbara, che si serve dell’acqua per indagare il passato dello spazio. Pende dal soffitto Un giorno da una finestra, l’opera di Maria Vittoria Garbin e Nicola Sturm costituita da fili d’ottone che illuminano l’ampia sala e, infine, delimita l’area dell’atelier Spot, del duo Prove Colore, telo incastrato tra lo studio e la città.

Proposte a largo raggio, quindi, che testimoniano una capacità non comune di conseguire una sintesi tra il rigore delle ricerche estetiche e il desiderio di incidere significativamente nella realtà di Padova: una città che solo di recente ha visto emergere spazi per l’arte contemporanea, ma che spesso tende a chiudersi tra le mura di retrospettive faraoniche e mostre blockbuster, senza offrire un reale sostegno a giovani artisti emergenti.

8/60: le opere in mostra

La luce è al centro del lavoro di Maria Vittoria Garbin e Nicola Sturm. Una fitta giungla di fili d’ottone pende dall’alto soffitto all’inizio del percorso espositivo. Crea riflessi e bagliori quando si proietta sulle superfici, le scandisce con le sue linee, formando poesie di luce: fili d’oro come spiragli segreti, metafisici nella loro rigidità, riflessi di un sole che sorge o bagliori di una luna che torna. L’opera vuole sondare la sensazione del contatto con la luce, quando essa non viene solo vista ma percepita. L’intento del duo è quello di materializzare la dimensione spirituale in cui ognuno entra quando la luce si manifesta in un luogo.

Spot, PROVE COLORE

Appropriazione, stratificazione, multidisciplinarietà: sono queste le tre principali operazioni che caratterizzano la produzione del duo Prove Colore, a cui se ne aggiungono poi altre derivanti, come la citazione, la sovrapposizione e la stratificazione. Spot in è particolare un’istallazione dove su un telo sospeso di forma curva, dipinto con vernice spray attraverso stencil, scorrono video della città. Padova è ripresa camminando di notte, o all’alba, e vi si sovrappongono citazioni tratte dallo scritto di Ai Weiwei su Andy Warhol e dal lungometraggio Paranoid Park di Gus Van Sant. L’opera delimita uno spazio liminale incastrato tra un esterno urbano e lo spazio di ricerca artistica. La risultante è una commistione di elementi, i quali durante l’attraversamento dell’istallazione, sospendono l’area interessata e sfumano il confine delle due realtà limitrofe “Uno Bis” e Padova, che entra così a far parte della memoria collettiva dello spazio.

Chiara Bonetti, Non me ne vado

Non me ne vado è un modo per rispondere all’ossessione di registrare il tempo della propria esperienza nello spazio e di dare valore a quello che viene comunemente considerato uno scarto: la polvere. Chiara Bonetti, intenta a esprimere un bisogno intimo e profondo, ha spazzato quotidianamente la polvere che si formava nello spazio di Uno Bis; una routine sempre uguale, dove il gesto ripetuto più e più volte dava forma a quell’insieme di elementi che scandivano la sua giornata. La polvere raccolta con infinita pazienza è stata trasformata in uno strumento che ci permette di ascoltarne la voce, tramutando così gli scarti del nostro esistere in un’esperienza condivisa. La polvere, in Bonetti, è traccia della memoria di tutti quegli ieri che hanno contribuito a formare l’oggi, frammenti di un’esistenza che sono andati in frantumi e che diventa necessario raccogliere per ricomporre se stessi.

Enzo e Barbara

Può l’acqua essere considerata un archivio vivente? Secondo il duo Enzo e Barbara sì, che infatti la scelgono come medium per avviare il recupero del passato di Uno Bis. Utilizzando un deumidificatore, il duo ha estratto l’acqua contenuta nell’aria dello spazio. Questa è stata poi utilizzata per creare delle bioplastiche che riproducono gli strumenti usati in passato dai lavoratori della fabbrica. Questo processo ha consentito di riportare alla luce e restituire al loro contesto originale gli utensili adoperati nello spazio. L’acqua, così, si fa archivio di un passato che non c’è più dal quale attingere nel presente. Tuttavia, il fine di Enzo e Barbara non è documentario o scientifico, ma evocativo di una biologia collettiva. Operazione del ricordo, la loro, che con un gesto d’amore riesce a riconsegnarci la memoria dei luoghi quando la credevamo irrimediabilmente perduta.

Martina Biolo

L’istallazione di Martina Biolo è una riproduzione in scala reale della sua postazione nello spazio di Uno Bis. L’artista con questa operazione riflette sulla percezione del reale, contaminandola con la sua dimensione intima. Biolo infatti ci invita a entrare (uno alla volta) nella sua stanza privata, varcando la tenda che separa e organizza l’ambiente, ma che contemporaneamente lo unisce allo spazio espositivo. Il dualismo da risolvere sta dunque tra il primo impatto della forma chiusa della stanza e la delicata introspezione del materiale utilizzato: gommapiuma e cotone. L’artista infatti non ha realizzato, come potrebbe sembrare ad una osservazione superficiale, un’ambientazione ferma, bloccata sugli oggetti ma, più propriamente, un’ambientazione sospesa, come quella che si ottiene arrestando il singolo fotogramma di una pellicola: tutto si mostra momentaneamente nella sua fissità, ma basta sfiorare il suo materiale morbido perché lo spazio prenda vita. Qui si vogliono dunque sondare i meccanismi di base della percezione muovendo da determinati materiali che, fatti diventare protagonisti, acquistano a loro volta significati ancora nuovi, ancora importanti.
In conclusione, se è nato a Padova questo spazio indipendente di ricerca artistica, si deve esclusivamente allo sforzo di giovani artisti che, nel momento cruciale della loro evoluzione formativa, si sostengono a vicenda nel difficile mondo dell’arte contemporanea. Scelta coraggiosa, la loro, a testimonianza che l’arte contemporanea a Padova è ancora una scelta possibile. Anzi, necessaria.

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