Spesso mi trovo a pensare alla differenza radicale nel rapporto con la natura tra le culture più influenzate dal Romanticismo – quelle anglosassoni – e chi invece è erede maggiormente della classicità antica e del Rinascimento, come noi italiani. Nella nostra matrice culturale la natura è sentita come nemica e l’uomo – moderno Prometeo – ha tutto il diritto, anzi il dovere, di prevalere su di essa. Invece i germanofoni amano, per esempio, abbandonarsi alla natura, dando a volte l’impressione di cercarvi l’annichilimento personale.
L’uomo sopra la natura o la natura sopra l’uomo: dicotomia tradizionale che nell’epoca del cambiamento climatico e di altre crisi ambientali dovremmo tentare di superare, anche perché l’uomo è un animale, alla fin fine. Questo è uno dei concetti veicolati da Sowing the seed of care, esposizione assai interessante curata da Giacomo Pigliapoco presso Fuoricampo, vicino a piazza del Campo a Siena, con due installazioni satellite in spazi pubblici senesi.
Per via degli orari di chiusura ho iniziato la visita appunto dalle due sedi esterne, tra loro vicinissime, in zona Porta Ovile. L’Accademia dei Fisiocritici, oggi Museo di storia naturale, ha accolto la curatrice e artista Ambra Viviani – da anni a Basilea dove anima lo spazio Giulietta e di origine napoletana – con l’installazione Lullaby for nonhuman animals. In questo bell’edificio, come in ogni museo di storia naturale, veniamo a contatto con ogni tipo di animale tramite le sue vestigia: ciò che di essi rimane dopo la morte. L’ampia collezione è stipata in alte vetrine, e le tante famiglie del regno animale riescono a toccare la nostra empatia.
A un certo punto percepiamo una melodia elettronica e non è la suoneria del cellulare di altri visitatori. Ambra Viviani ha composto e diffonde una ninna nanna per tutti questi animali. Animali come noi, ma che non sono noi. Noi viviamo e li vediamo, loro no. Un pensiero delicato e intenso, che si esprime anche attraverso un disegno posto su un tavolino nello stesso segmento del percorso museale.
Gli orti botanici sono spesso tra i luoghi pubblici più affascinanti di un centro storico. Quello di Siena ci accoglie nel primo caldo estivo. Non è piccolo e scopriamo l’intelligenza, in un luogo come questo, di un’opera d’arte contemporanea che si faccia notare anche qui, perché si tratta di un lavoro audio. L’artista Bora Baboçi, operante a Berlino, in Leit-motif riprende canti dall’Albania, di cui è originaria, legati al periodo della sua indipendenza, nel Novecento. L’installazione include un disegno ispirato al suo appartamento berlinese e la stessa collocazione tra le piante rampicanti rimanda alle stratificazioni culturali caratteristiche di quella metropoli.
Queste due artiste sono presenti anche nei locali della galleria Fuoricampo. Viviani propone qui dei bassorilievi in marmo rosa – credo esposti per la prima volta – che mostrano in modo stilizzato scambi affettivi operati da animali nei confronti degli amati e della prole, come un paguro che lascia la propria conchiglia al figlio. Baboçi invece è presente con un grande disegno su carta riguardante un altro ambiente cittadino: un giardino chiuso da mura. La capacità di rigenerazione della natura viene preclusa a umani e animali tenuti fuori da mattoni e confini di proprietà private.
Distribuite tra varie pareti troviamo piccole sculture metalliche in argento e peltro placcato. Si possono aprire e rivelano di essere due frutti e una zucca dalla superficie interna polita. Questi che possono sembrare soprammobili – i posaceneri mai impiegati del salotto buono della nonna – sono in realtà sculture del parigino Julien Monnerie. Viene da pensare che l’artificiosità del food market tra le altre cose ha fatto sì che i frutti più genuini vengano idolatrati e la coltura biologica rischi di annettere pratiche rituali che la pongano al rango di una religione.
Dal pavimento s’innalzano tre sculture filiformi dell’artista sloveno Enej Gala, intitolate The invention of footsteps. Attorno a filo di ferro, sono formate da semplice segatura impastata con colla vinilica. L’esito è simile a marionette ma dal senso ermetico. Appaiono come effigi di creature ambigue, con aspetti sia animali che antropomorfi e alla fine preconizzano una relazione tra le specie e una vera inclusione da parte della specie tra tutte la più potente (finora).
Le altre opere sono tutte pittoriche e coprono le pareti della galleria. L’angolo destro della sala, entrando, accoglie due piccole opere a tecnica mista, che comprende l’uso dell’aerografo, dell’artista cosmopolita Cecilia Granara. Entrambe rappresentano in modo stilizzato delle balene, viste come grande presenza misterica negli abissi marini, con cui talvolta entriamo in contatto – ma rimangono soggetti favolistici. I colori da lei impiegati e le forme fanno pensare a una nuova accoglienza, a una gentilezza che ha tra i suoi sinonimi la cura, in un senso giustamente più ampio di quello quotidianamente citato nel mondo dell’arte.
Subito a sinistra e anche sulla parete d’ingresso dell’ufficio della galleria sono due dipinti della giovane svizzera di origine malgascia Jessy Razafimandimby, già vincente nel 2021 il Kiefer Hablitzel Prize, riservato agli under 30. In queste opere, la figura canina e quella umana sembrano completarsi e riunirsi in un reciproco sostegno che supera la relazione tra padrone e padroneggiato.
L’esposizione si completa con il dipinto a olio del parigino Adam Bilardi intitolato On est redescendu aussi vite qu’on est monté. Di nuovo la figura umana è un tutt’uno con quelle animali: si tratta forse di maschere visibili nel crepuscolo di una natura immanente, testimone di un percorso che più che evolutivo appare reversibile.
Dopo questo percorso –’instilla anche in un appassionato di Darwin, come me, un dubbio sul senso medesimo della parola evoluzione, nell’urgenza consapevole di un rapporto alla pari con gli altri esseri animali.
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