Può un’opera di pittura non essere dipinta? Sì, perché è disegnata; ma per esserlo davvero e completamente il disegno non deve inseguire la pittura ossia la sua completezza e politezza (penso a Omar Galliani) bensì essere soltanto disegno, ovvero bozzetto, quindi avere un aspetto estemporaneo, istantaneo, spontaneo, un’idea in formazione, e questo deve accadere nel complesso, nell’assetto generico e nella maggior parte dell’opera. Valerio Nicolai invade lo spazio – le due opere tagliano giganti, piatte e rigide il luogo di due stanze attigue della galleria Clima di Milano – non con un “trompe l’oeil”, ma con un “annienta l’oeil”, un “ricrea l’oeil”, non con una finitezza ma con una transitorietà dell’opera. La transitorietà qui è un‘immagine in fieri della stessa materia che la compone: segni di matita colorata più spessi del normale, dati a tracce successive, veloci, in porzioni affiancate, secchi sul legno chiaro di betulla, negli spazi alternati di due distinti pavimenti, uno a sinistra verde chiaro e bianco a losanghe fluttuanti, e il secondo a destra a cerchi rossi inscritti in riquadri blu alternati a cerchi blu inscritti in riquadri rossi, mostrandosi precari non solo nell’abbozzo materico che lascia allo scoperto i gesti del disegnatore che va colmando rapidamente la superficie, cercando un effetto rapido quanto vasto e complessivo, in un aspetto approssimante e compiuto al contempo, ma anche precario nella fisicità dei due piani che risultano in alcuni significativi particolari instabili o dal disegno appena sovrapposto negando una rigidità rappresentativa, e sono l’unica traccia del luogo poiché la loro fuga prospettica si perde nel nero leggero e intenso di un colore acrilico assorbito nel legno che da vicino si anima dell’ondulazione delle venature.
In questo clima di perdita di certezze sceniche e materiali – e nello straniamento di due pavimenti infiniti, instabili, quasi arcuati, in un disperso nero -, pur conservando una nettezza di luogo che appunto è pervaso da totale incertezza – dove siamo?, è un luogo possibile?, in quale fisicità? – ecco apparire, ma meglio sarebbe dire materializzarsi, una volpe su ogni pavimento, disassata dal centro a tre quarti dei pannelli verso i due opposti esterni, lasciando all’interno un ampio spazio di scena vuota: a sinistra lunga e con la testa bassa, a destra mossa in una curva e sorvegliando d’improvviso alle sue spalle, verso l’osservatore, ambedue perfettamente rese da fitte e sapienti, fini, linee di matite colorate, a definirne il pelo e l’ombra sottostante. L’apparizione della volpe non è che una materializzazione di un aspetto per infittimento dei segni di matita che erano più larghi e riempitivi nei pavimenti, e che qui, intricandosi finemente, vanno a “farsi” aspetto vitale definito, animale che vaga per quello spazio che ha la sua natura e non la nostra – la sua è una natura materiale come la nostra, ma non biologica.
È possibile dipingere utilizzando soltanto segni di matita che non sono più disegno ma pittura? Sì, se lo scopo non è quello di rappresentare qualcosa ma suscitarlo come un rabdomante che trova l’acqua e la fa sgorgare da una specifica porzione di terreno, e l’acqua appartiene a quella terra e non al rabdomante; il rabdomante ha solo l’abilità di rendere possibile il momento in cui l’acqua sgorga, da nascosta che era, in uno specifico punto del terreno che ora la mostra. Nicolai è un artista rabdomante che non vuole imporre alla materia del colore la sua autorità, egli non sceglie di calcificare la sua idea autoritaria in una materia oleosa che si indurisce davanti a lui e che sta pietrificata davanti allo spettatore, egli invece mantiene il segno vicino a se stesso (al segno), e lo mantiene aperto, areato – lo è grandemente nei pavimenti ma anche nel fine sovrapposto reticolo delle volpi e della loro ombra –, e lascia che esso non si solidifichi, e, mantenendolo in questo stato, si animi per sua energia, per sua caratteristica materiale: da quanto tempo quegli innaturali pavimenti aspettavano l’arrivo estraneo, eppure paradossalmente coerente, di una volpe? Il secondo e l’eternità si confondono facilmente e il nostro tempo è negato, eppure l’osservatore raggiunge quell’opera ed essa gli sbarra il cammino. La volpe e lo spettatore vagano nel loro corrispettivo mondo e si trovano – per merito di Nicolai – nel punto esatto del loro crocevia. Umano e volpe sono estranei in quanto intersezione tra il vivo della natura e il materializzato della materia; ma la materia è nello spettatore che sa di essere viva materia, e qui in uno straniamento egli si riconosce nella volpe che è suscitata dal suo universo umano.
Ma cosa sa la volpe? La materia, aggregata in un vortice di apparenza, può sapere qualcosa? La volpe sa di essere una traccia della materia e Nicolai sa che questa traccia è tanto prossima a ciò che può essere vivo perché colta prima della rappresentazione calcificata al culmine della mente in un’idea, e prima quindi del culmine della mente e molto prima di un’idea è lì che sta la volpe, nelle profondità della natura della mente e in quella natura mentale che non ha mai conosciuto l’idea ed è quindi selvaggia, libera e imprevedibile, inspiegata, è universalmente se stessa, itinerante in ogni luogo e ora qui davanti alla persona, nella scintilla senza tempo che li incrocia, in un tempo fatidico di tutti i tempi, e lì, in quel momento interminabile – raddoppiato in un lasso dalle dimensioni spazio temporali incalcolabili -, i due sguardi si incontrano, vivi – o il vuoto o il tutto degli occhi, presenti o assenti, ma, nell’universo compiuto dell’opera, adesso sono lì –, e la volpe ti guarda con occhi reali e sbatte le palpebre, e gli occhi stanno oltre quelli svuotati della volpe, persi dentro i suoi occhi in un dove introvabile, e da lì osservano o fuggono lo sguardo del vivo umano che incontrano con occhi altrettanto vivi e umani, non dietro ma dentro una volpe materializzata dal gorgo della materia.
Ora si pone il problema dello shock che in un istante isola l’umano nella persona da quegli occhi possibilmente umani in una volpe materializzata. A quegli occhi incerti e vivi risponde l’umano isolato dalla materia della persona, e la persona si ritrova sola sostanza umana, priva di materia e di corpo, e vive questo trauma – leggero e profondo – di sentirsi vivo senza materia, di potersi sentire vivo senza materia, di riconoscersi quindi pienamente spazio mentale in azione – provocato dall’incontro con gli occhi della volpe materializzata – e di essere una cosa che diremmo “figura umana” che continua il suo percorso oltre la volpe in quello spazio libero e senza orizzonte che sta accanto ad essa, e la mente che osserva il suo orizzonte non ha più bisogno di occhi e già si sta perdendo in quello spazio: “persona umana” presa in una dissoluzione di materia che la rende sparsa e vivida senza luogo eppure percorrendo, e allora la mente scopre di percorrersi, e quel nero profuma di natura, e si ricrea la certezza di infinite possibilità del viaggio mentale.
Nicolai annulla la pittura disvelandone l’energia libera che consiste nel liberare la propria materia (ossia l’energia della pittura) incontro all’osservatore facendo sì che da questo incontro egli si spogli della propria materia lasciando galleggiare la radice della mente – in un vuoto senza bordi – liberandone le prospettive transitorie dove egli scopre di poter abitare, oltre lo spettatore, oltre la persona, essendo un umano senza bordi, e facendo esperienza di se stesso nel vuoto mentale. La materia della pittura, lasciata libera, senza concretizzarsi idealmente, attiva e muove la propria materia seguendo un’energia che continuamente e incessantemente – sono gli occhi vivi della multi volpe – viaggia e investe lo spettatore, deprivandolo della propria materia, e questo accade perché la materia della pittura è cosa umana e Nicolai non vuole nominarla ma lasciarla libera al suo stadio primordiale di movimento autonomo di materia, nel disegno continuamente operante e gigante, che, investendo lo spettatore, cerca l’umano in lui (è se stesso che cerca il vero se stesso; il Sé che cerca il Sé e si trova continuamente), e paradossalmente lo fa liberandolo dalla sua materia, ed egli si scopre legato ancora a qualcosa che non ha più nulla di materiale, egli si scopre mente collegata alla stessa mente, e lì abita la radice di quell’energia libera della pittura che istantaneamente, in uno shock, in un trauma leggero e denso, pone, in una frazione di millesimo di secondo, la domanda “Che cosa è l’umano?” e la risposta è nello stesso istante “La mente.” e questa appare come un campo ripetitivo, che è vero e in fuga senza inseguitore nel luogo oscuro mostrato da Nicolai, ed è uno di quei pavimenti – o tutti e due insieme – a perdita d’occhio nel nero, e la mente si muove lì veramente – in quanto dinamiche continue di neri, pavimenti, luci, volpi, vuoti, senza priorità -, e porta con sé il Sé. La pittura con Nicolai dimentica il reale e si connette stabilmente con la “portata” della realtà, ossia al codice – che si trova nella mente e può essere attivato – da cui si ricrea il reale. Così, l’incontro con le due volpi di energia materiale, è l’attimo in cui la mente si risveglia, autonoma nel vuoto, nel proprio vivente umano che continua a guardarla, ogni volpe, istantanea e perdurante, nascosta dietro al vortice, sistemato temporaneamente, della materia, ma è la mente che già guarda se stessa, e Nicolai lo sa, e quegli occhi dentro le due volpi sono di donna. E la mente dietro al pannello, viva, entra in cortocircuito con la mente davanti al pannello, tutte e due in campo umano, e la scena instabile che accade sul pannello è profonda in una proiezione mentale, perché, ciò che accade tra due menti senza corpi, accade in una sola mente, in un divenire vivo e umano di una materia senza i bordi del corpo.
Francis Bacon lotta ancora con il corpo e la persona, dandone l’universalità: il vivo è còlto nello specifico del personale universale; ma Nicolai attiva il vivo della mente che abita l’umano e che risiede in ogni persona e che egli scatena e libera nella mente dell’osservatore che diventa umano, e non nella tipizzazione mortale della persona ritratta come accade in un quadro di Bacon. Lo scopo dell’opera è opposto: Bacon punta al soggetto ritratto, mentre Nicolai punta a liberare la mente dalla schiavitù del corpo dello spettatore diventato umano.
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