«La Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte il cappello alla romana viva viva la Befana!» Tutti, almeno una volta, abbiamo ceduto al fascino della Befana, sognando con quella vecchina con il naso lungo e il mento aguzzo, con le scarpe tutte rotte, che viaggiando su di una scopa in lungo e in largo, porta doni a tutti i bambini. Ma da dove arriva questo nome? Dal latino epiphanĭa per epiphanīa, o dal greco ἐπιϕάνεια, quindi «(feste) dell’apparizione, «manifestazione (della divinità)», derivato di ἐπιϕαίνομαι, che significa «apparire», la Befana – originariamente simbolo dell’anno appena passato – ben sappiamo designa l’apparizione (l’epifanaia) agli occhi dei magi della cometa, che li avrebbe guidati fino alla culla di Gesù. I magi dunque, visto il segno della stella, lo hanno interpretato e si sono messi in cammino. E allora occhi puntati sulle stelle, in questa giornata che chiude le festività: che le stelle possano essere di buon auspicio per l’anno appena iniziato.
La Notte stellata di Vincent Van Gogh è uno dei quadri più noti della tradizione pittorica occidentale. Il maestro olandese annunciava la sua realizzazione, nel 1889, con una lettera al fratello in cui affermava: «spesso penso che la notte sia più viva e più riccamente colorata del giorno». Viaggio interiore, o fedele rappresentazione della realtà – secondo un gruppo di scienziati di Francia e Cina specializzati in dinamica dei fluidi sembrerebbe che la precisa rappresentazione della turbolenza di Van Gogh potrebbe derivare dallo studio del movimento delle nuvole e dell’atmosfera o da un innato senso di come catturare il dinamismo del cielo – quest’opera conferma la passione di Van Gogh per le stelle: in un’altra lettera al fratello Theo scrisse «…guardare le stelle mi fa sempre sognare, così come lo fanno i puntini neri che rappresentano le città e i villaggi su una cartina. Perché, mi chiedo, i puntini luminosi del cielo non possono essere accessibili come quelli sulla cartina della Francia?»
Van Gogh, certo, non fu il primo a dipingere un cielo notturno o una notte stellata. Come del resto non fu l’ultimo. Nel 1912 Franz von Stuck, pittore simbolista espressionista che ebbe tra i suoi allievi anche Josef Albers, Giorgio de Chirico, Wassily Kandinsky e Paul Klee, dipinse Stelle cadenti, 1912; Felice Casorati realizzò la Via Lattea con barche nel 1913, anche Georgia O’Keeffe, nel 1917, diede vita alla sua Notte stellata (cartolina natalizia), ed Edvard Munch, una delle sue Starry Night (dopo quella del 1893 conservata al Getty Museum di Los Angeles) è datata 1922-1924. Ma anche René Magritte, per Uso della parola, desiderio del 1927-1929 si affidò alle stelle; e Joan Mirò dipinse La stella del mattino – della serie delle Costellazioni, nel 1939; l’Icaro di Henri Matisse è del 1946; e ancora Così tante stelle di Andy Warhol è del 1958.
Poi fu Mario Schifano. Nel 1967 concepì il polittico Tutte le stelle come uno studiolo rinascimentale, formato da otto tele, dipinto per ricoprire parti del soffitto (un soppalco) in casa della principessa Patrizia Ruspoli a Roma, come un luogo immersivo, dove le stelle avvolgenvano in una sensazione di movimento, di leggerezza e di esaltazione dei sensi. Non è tutto, perché Schifano diede il nome di Le Stelle di Mario Schifano – e ne fece un’emanazione della propria opera – a un gruppo musicale nato a Roma e attivo negli anni sessanta, tra i primi in Italia a dedicarsi alla psichedelia insieme ai concittadini Chetro & Co.
Trent’anni dopo le stelle di Schifano, nel 1998, Anselm Kiefer dipinse uno dei suoi più grandi capolavori dal titolo Sternenfall (Stelle cadenti), che fa parte della collezione permanente del MAXXI di Roma. L’opera, che appartiene alla fase in cui l’artista riflette sulle costellazioni, nasce da una profonda meditazione sulla tragicità della storia e con forti riferimenti agli orrori del nazismo e dell’Olocausto, elabora i temi della memoria, del mito, della fragilità dell’uomo, traducendoli in una dimensione sempre più astratta e mistica. E se Kiefer – sul fondo irregolare su cui ha steso un colore nero piuttosto diluito e opaco – con il bianco evidenzia inserti in stucco o legno sui quali compone una serie di codici alfanumerici che si riferiscono al sistema di classificazione delle stelle usato dalla Nasa, un altro artista come James Lewis – che ha riflettuto, anche lui, sulle costellazioni – nella serie Diseases of Warm Lands dispone sulla superficie fori bruciati, spine di piombo e vetri fusi in maniera tale da corrispondere alla formazione di costellazioni di stelle, come per esempio Rhombus, introdotta nel 1621 e sostituita dal 1810, o Taurus, che nella mitologia greca rappresenta il toro in cui Zeus si è trasformato per rapire la principessa fenicia Europa. Le costellazioni dunque non sono sempre esistite come le si conosce nel tempo attuale e poiché coerenza, ordine, caos, sincronia sono fenomeni con un alone di mistero che travalica il sapere intellettivo, è inevitabile che la mente umana, indagatrice, corra veloce verso il tentativo di configurarsi, ordinatamente, la parte superiore del proprio habitat naturale.
L’opera di Lewis, se la si guarda mobilitando gli organi di senso, quelli interiori, intuitivi, dà la possibilità di trasfigurare la costellazione in un approccio conoscitivo capace di svelare l’essenza delle cose seguendo il principio primario della conoscenza, ovvero osservare ciò che si manifesta senza alcun giudizio a priori. Di possibilità di trasfigurazione sembra esserne ben capace anche Fulvio Morella, che ha scelto proprio le stelle per l’evoluzione artistica dell’alfabeto braille che da sempre distingue la sua opera, scultorea e tessile: la disposizione dei corpi celesti su tessuto, come un cielo notturno, cela di volta in volta importanti riflessioni, come nel caso di Sipario di Stelle, che non solo sagoma una clessidra ma anche riporta la massima Nietzchiana «L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere».
In materia – iconografica – di stelle, nel regno dell’esistenza, difficile non correre a Rhythm 5 di Marina Abramovič. In questa performance – che appartiene alla serie Rhythms (1973-74) che avevano al centro le tensioni tra abbandono e controllo – cercò di rievocare l’energia prodotta dal dolore, in questo caso utilizzando una grande stella intrisa di petrolio, che accese all’inizio della performance: restando fuori dalla stella, Abramovič iniziò a tagliarsi i capelli e le unghie di mani e piedi. Terminata ognuna delle operazioni, gettava i ritagli nelle fiamme, creando ogni volta un crepitio di luce. Nel far questo intendeva rappresentare un concetto di purificazione fisica e mentale, includendo l’ appartenenza politica del suo passato. Al termine di questa purificazione, Abramovič saltò le fiamme e si distese al centro della stella, dove non c’era ossigeno, perse i sensi, scoprendo che c’è un limite fisico.
Chiudiamo la nostra rassegna con When the sun goes away I will paint the sky, il progetto che Petrit Halilaj avviò a Prishtina nel 2022, per cui si ispirò a un saggio scritto da Njomza Vitia, un abitante di Prishtina che all’epoca aveva dodici anni: Quando il sole se ne andrà dipingerò il cielo (“Kur dielli të ikë, do ta pikturoj qiellin”). Scrisse: «La storia parla della tensione di una ragazzina nei confronti del mondo degli adulti e della sensazione che la società stia infrangendo i suoi sogni. Ma trasmette anche con forza le sue speranze e la sua energica visione del futuro.Mi chiedo se possiamo associare le sue parole alle stelle e farle tornare a illuminare come un pennello che si protende verso il cielo. Mi chiedo se le lettere del Grand Hotel Prishtina possano essere riorganizzate e aggiunte per formare una nuova frase, un messaggio poetico che risplenda di nuovo per la città. Trasformando l’“io” in “noi”, un desiderio personale è diventato collettivo; moltiplicando le cinque stelle, un hotel in declino può essere reimmaginato come qualcosa di nuovo e vibrante».
Vedere la stella è il punto di partenza. Buona Epifania, con l’auspicio di vivere tenendo lo sguardo, sempre, alto.
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