Corpo e coreografia, verso la 35ma Biennale di San Paolo: la parola ai curatori

di - 18 Giugno 2023

Con lo slogan Coreografie dell’impossibile, la 35ma edizione della Biennale di San Paolo (Brasile) è uno degli eventi culturali più importanti dell’America Latina. La Biennale si svolgerà dal 6 settembre al 10 dicembre 2023 nel Padiglione Ciccillo Matarazzo, nel Parco Ibirapuera della città brasiliana, e cercherà di mettere insieme la presenza di pratiche artistiche dissimili e inaspettate –arte, musica, cinema, danza–, e provenienti dai luoghi geografici più disparati.

Ma c’è una chiara intenzione di sfuggire alle categorie, alle classificazioni e alle strutture conosciute, come ci dice il team curatoriale di questa edizione della biennale. La curatrice brasiliana Diane Lima, la scrittrice e artista portoghese Grada Kilomba, l’antropologo brasiliano Hélio Menezes e lo storico dell’arte e curatore spagnolo Manuel Borja-Villel (ex-direttore del Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid), hanno scelto di evitare la figura di un curatore capo e di agire quindi in modo trasversale, senza gerarchie, con tutte le sfide che questo comporta.

«Non è importante né urgente organizzare un’altra biennale nei termini e nelle strutture conosciute. Si tratta di mettere in discussione ciò che sappiamo, e tutto il sapere è intimamente legato a processi di violenza e potere. Gli artisti e le opere sono stati scelti e discussi meticolosamente per non dare necessariamente delle risposte ma, soprattutto, per creare nuovi problemi e nuove domande che prima non c’erano», ha spiegato la portoghese Grada Kilomba.

Sono stati così svelato i nomi di 43 dei 100 artisti partecipanti, la lista completa sarà resa nota a giugno. Il programma prevede 37 partecipazioni individuali, quattro duo e due collettivi, con il 76% dei partecipanti provenienti dal Sud globale e il 92% di origine nera, indigena o non bianca. Tra loro, nomi come Alina Mota (Brasile), Niño de Elche (Spagna, 1985), Elda Cerrato (Argentina, 1930-2023), Anna Boghiguian (Egitto, 1946), Dayanita Singh (India, 1961), Deborah Anzinger (Giamaica, 1978), Ellen Gallagher (Stati Uniti, 1965), Geraldine Javier (Filippine, 1970), Julien Creuzet (Francia, 1986), Nontsikelelo Mutiti (Zimbabwe, 1982), Wilfredo Lam (Cuba, 1902-1982), Duane Linklater (Canada, 1976) e Trinh T. Minh-Ha (Vietnam, 1952).

«Attraverso la poetica, attraverso la coreografia, si cercano spazi di resistenza e di libertà. Sono spazi che cercano di immaginare altri mondi, dove le norme, le regole, vengono continuamente inventate e negoziate», ha detto lo storico spagnolo Manuel Borja-Villel.

Julien Creuzet, This is not an oxymoron: Julien Creuzet’s triangular orbs (…), 2021, vista da exposição Prix Marcel Duchamp 2021 no Centre Pompidou / Courtesy of the artist and Galerie High Art Paris/Arles © Photo: Bertrand Prévost, Centre Pompidou

Perché è stato importante per lei formare un gruppo curatoriale strutturato orizzontalmente, senza la figura di un curatore capo?

Manuel Borja-Villel «Tutti ci chiedono perché un collettivo, ma perché nessuno si interroga quando si tratta di una persona singola? L’idea di unire quattro persone che provengono da professioni diverse, storie diverse, Paesi diversi, è proprio quella di sfruttare queste differenze. Si impara sempre con gli altri e l’apprendimento è un atto di umiltà, implica la comprensione del fatto che tutto il sapere è frammentato, che tutto il sapere è limitato e che si impara solo in comunità –il che ovviamente non è in contrasto con gli antagonismi, con le differenze. Al contrario, ognuno ha la sua storia, il suo background. E gli artisti su cui ci siamo trovati d’accordo, ognuno li ha compresi da un punto di vista diverso. È stato un arricchimento anche confrontarci su quelli su cui non eravamo d’accordo. Per noi lavorare insieme non è un fatto romantico, è una forma di governo ed è un lavoro epistemologico, perché significa rivendicare un altro modo di produrre conoscenza».

Diane Lima «Essere un collettivo senza gerarchie apre anche la possibilità di sperimentare prospettive curatoriali che spesso non trovano spazio nelle strutture gerarchiche delle istituzioni. L’idea del collettivo mette alla prova le posizioni normalmente concepite all’interno delle istituzioni e il modo in cui esse operano sotto la direzione di un’unica figura eroica, quella del curatore capo. Non abbiamo conoscenza di pratiche curatoriali alternative perché, di fatto, quelle presenze e quei corpi non hanno mai avuto spazio nelle strutture istituzionali. Come ha detto Manuel, non si tratta di un gesto eroico, romantico, che da solo ha un destino vittorioso. No. In realtà, abbiamo una prospettiva pessimistica su come le pratiche collettive si svolgono nella vita quotidiana. Ed è anche difficile negoziare le decisioni in quegli spazi. È molto importante capire cosa succede quando questa composizione curatoriale viene coreografata all’interno di un’istituzione. Questa coreografia dell’impossibile inizia già con la nostra composizione, con il nostro lavoro».

Vi siete sobbarcati di lavoro extra decidendo di seguire questo approccio. Capisco che sia una grande sfida.

Grada Kilomba «Esattamente. L’urgenza ci mette di fronte alla necessità di mettere in discussione tutto ciò che sappiamo. In questo momento non è né importante né urgente fare un’altra biennale nei termini e nelle strutture conosciute. Tutta la conoscenza è intimamente legata a processi di violenza e di potere, quindi la cosa più importante e urgente in questo momento sarà forse non dare risposte, non generare nuova conoscenza, ma creare una piattaforma dove possano emergere nuove domande e nuove strutture. Ed è proprio per questo che ci siamo costituiti, con il desiderio di essere un laboratorio sperimentale. I contenuti della mostra, la lista degli artisti e tutte le opere sono state scelte e discusse meticolosamente, non per dare necessariamente delle risposte ma, soprattutto, per creare nuovi problemi e nuove domande che prima non c’erano. È in questo senso che abbiamo elaborato il concetto di Coreografie dell’impossibile».

Moving Backwards, Pauline Boudry / Renate Lorenz, still. Installation with HD, 23 min, 2019. Choreography/performance: Julie Cunningham, Werner Hirsch, Latifa Laâbissi, Marbles Jumbo Radio, Nach. Courtesy of Ellen de Bruijne Projects Amsterdam and Marcelle Alix Paris

Come è avvenuta la selezione degli artisti e delle opere?

Hélio Menezes «La scelta degli artisti e delle opere è il risultato dell’incontro di quattro percorsi che a volte formano consenso e a volte dissenso. Per noi non si tratta di un tentativo enciclopedico, né di coprire tutte le realtà o tutti i contesti. C’è un gran numero di artisti contemporanei viventi che producono ora, ma anche una presenza significativa di artisti storici che non sono più tra noi. E questa Biennale capisce che queste produzioni non si generano spontaneamente, non nascono dal nulla, ma hanno rapporti con altre genealogie, con altri antecedenti che non si adattano necessariamente a una certa storia dell’arte, a volte molto eurocentrica».

MBV «Non è pensando alla loro nazionalità che abbiamo scelto gli artisti: da quale Paese provengono le persone della diaspora, da quale Paese provengono le comunità maya? È attraverso la poetica, attraverso la coreografia, che si cercano altri spazi di resistenza e di libertà. Sono spazi che cercano di immaginare altri mondi, dove norme e regole vengono continuamente inventate. E come ho detto prima, partiamo dal fatto che ogni conoscenza è sempre parziale, sempre frammentaria».

Quanto deve essere difficile uscire dalle categorie abituali, cancellarle senza cadere allo stesso tempo in nuove categorie e classificazioni.

DL «Sì. C’è una manifestazione culturale molto specifica delle pratiche afro-brasiliane chiamata capoeira. Quindi direi che pensare a questa relazione è spesso come fare una grande capoeira: richiede mobilità, richiede una deviazione dei corpi, richiede un tentativo di schivare e difendersi molte volte. È interessante perché pone anche il corpo all’interno della coreografia».

Dayanita Singh, Mona Montage, 2021 © Dayanita Singh Courtesy the artist and Frith Street Gallery, London

C’è una diversità di discipline che di solito non si trovano nelle biennali d’arte, come la danza, il cinema e la musica. Questa decisione ha a che fare con le attuali modalità di rappresentazione dell’arte o con un cambiamento del modello tradizionale di biennale?

HM «Per noi non si tratta di rappresentare tutti i linguaggi. Al contrario. In queste “coreografie dell’impossibile” che stiamo cercando ci sono diversi modi di espressione. Ci sono modi di espressione che a volte non trovano nemmeno un vocabolario nel nostro “modo di parlare occidentale” per definire l’arte. In alcune comunità indigene, ad esempio, la distinzione tra installazione, rituale, scultura e arte non ha alcun senso. Per noi è quindi fondamentale che queste conoscenze transdisciplinari o forme espressive che disobbediscono alle categorizzazioni non vengano eliminate dalla mostra perché non rientrano in una certa formulazione. Questa è una delle sfide che la 35a Biennale pone. Come pensare a uno spazio in cui comunicano diversi linguaggi e forme di espressione. Sono oggetti, apparenze, suoni, odori, sensazioni, materiali organici che vengono smontati e ricomposti nello spazio, non in un processo a compartimenti stagni, ma in uno spazio in cui si muovono liberamente tanti oggetti quanti tempi. Ed è proprio questo groviglio di linguaggi e relazioni che ci interessa mostrare. Il nostro obiettivo non è quello di riorganizzare il modello della biennale».

THE WAKE by The Living and the Dead Ensemble 3 screens video installation, Full HD, 35 min, color, 16:9, 2021 (France, UK, Haïti)

In ogni caso, pensate che il modello tradizionale della biennale sia mutato o si sia aggiornato in qualche modo?

HM «Guardi, immagino che le prospettive che non hanno trovato spazio negli spazi istituzionali portino inevitabilmente nuovi modi di pensare alla curatela, di fare mostre, che non erano stati sviluppati. Non so se queste possibilità comporteranno effettivamente un cambiamento nei modelli delle biennali in particolare. Quello che posso dire con certezza è che per la 35ª Biennale di San Paolo stiamo sperimentando un nuovo modo di fare, che si esprime non solo nella composizione di un team curatoriale orizzontale e collettivo quasi senza precedenti, ma anche nella stessa lista di artisti, che sfugge alla norma di 70 anni di biennali. Forse il modello istituzionale della biennale stessa, chissà, è un’impossibilità, e in ogni caso si cerca di coreografarlo».

DL «La nostra scelta ha a che fare con linguaggi artistici che tendono a offrirci una prospettiva più performativa. E un linguaggio con questa capacità ci aiuta a pensare che “dire” è “fare”. C’è la possibilità di costruire un discorso che si sviluppa nel gesto. E questa è una caratteristica forte soprattutto delle pratiche afro-brasiliane, afro-diasporiche e indigene. Inoltre, questa capacità performativa ci aiuta ad ampliare i limiti della rappresentazione, a rendere più complesso il dibattito su arte e politica. Quando il corpo è al centro dello spazio espositivo, ci aiuta a costruire queste articolazioni. Le abilità gestuali e coreografiche sono temi che abbiamo tenuto in grande considerazione, quindi la performatività sarà un elemento centrale della mostra».

GK «È importante andare oltre le discipline che ci sono state date, perché questa frammentazione delle discipline, dei compiti, della conoscenza è intimamente legata a una storia coloniale di potere e violenza. Perché alcune opere, alcuni artisti, portano una così grande varietà di prospettive? Perché vanno oltre le discipline frammentate che ci sono state date e appare un nuovo vocabolario, una sequenza di movimenti del corpo che attraversa lo spazio e il tempo, che può creare danze multiple e infinite che in queste piattaforme normative non hanno la possibilità di essere rese visibili. Ed è questo che mostrano le opere di questi artisti, nuovi mondi, nuove prospettive, nuove visioni, che nella loro pratica sono andati oltre ciò che ci conforta. Hanno cercato nuovi linguaggi».

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