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Viaggio a Ithra, il centro culturale punto di riferimento della creatività dell’Arabia Saudita
Arte contemporanea
Nell’orizzonte monocromo di Dhahran, nell’aerea petrolifera di Dammam, lungo la costa orientale del Regno dell’Arabia Saudita, spicca il grigio di una delle architetture contemporanee più interessanti e iconiche del paese, il King Abdulaziz Center for World Culture conosciuto come Ithra che in arabo vuol dire “arricchimento”. Un grigio che ricorda le plissettature di una seta dalle qualità cangianti, resa attraverso la forma solida di un monolito di 90 metri che ha in sé quella componente visionaria (ma questa è un’interpretazione personale) riconducibile al profilo stilizzato di un uccello mitologico, magari proprio il Roc così popolare nelle leggende mediorientali. Dalla sua apertura al pubblico nel 2018 – l’ambizioso progetto di edilizia green finanziato da Saudi Aramco (tra le più grandi compagnie petrolifere al mondo) è stato disegnato dallo studio norvegese di architettura Snøhetta – Ithra si è sviluppato come un organismo biologico che continua a crescere e mutare accogliendo nei suoi spazi armoniosi progetti culturali multidisciplinari e d’intrattenimento, destinati ad un target locale e internazionale, che va dal cinema e teatro alle mostre d’arte antica e contemporanea come Net Zero (in corso), laboratori, caffetterie e ristorante, un museo per i bambini e una fornitissima biblioteca con libri in arabo e inglese. L’Ithra Art Prize, tra l’altro, è un premio particolarmente ambito aperto ad artiste e artisti del mondo arabo giunto alle 6^ edizione che in passato è stato assegnato a Adel Abidin, Nadia Kaabi-Linke, Fahad bin Naif, Daniah Al Saleh e Ayman Zedani.
Promuovere la cultura è uno dei punti cardine del programma Vision 2030, in quest’ottica si colloca anche Tanween 2023, l’annuale piattaforma dedicata alla creatività. Quattro giornate – dal 1° al 4 novembre – all’insegna dell’innovazione, del design, della sostenibilità, degli scambi culturali – il tema di questa sesta edizione è «Scale» (scala) – e ha visto il coinvolgimento di professionisti internazionali invitati ad un confronto diretto – tra loro Ramsey Naja, Nelly Ben Hayoun-Stepanian, Dan Goods, Serena Cangiano, Leonid Slonimskiy, Carmelo Zappulla, Javier Peña Ibáñez, Nina Gbor – protagoniste e protagonisti di conferenze e live performance (Routes to Roots è il programma curato dal collettivo italiano Isola) su architettura, design, moda, grafica, animazione. In apertura l’intervento di Sumayah al-Solaiman, amministratore delegato della Commissione di Architettura e Design del Ministero della Cultura del Regno dell’Arabia Saudita (nel 2018 è stata curatrice con Jawaher Al Sudairy del primo padiglione saudita alla 16.ma Biennale d’Architettura di Venezia), che ha sottolineato l’importanza della conoscenza e della formazione in una dinamica in cui osservazione e ascolto hanno una valenza complementare nella crescita dell’individuo in cui si riflette la società.
Sostenitrice dell’attenzione ad una qualità ambientale e sociale responsabile come aspetto chiave del design, al-Solaiman ha parlato anche di come in quest’era globalizzata si debba garantire e proteggere il lavoro dei creativi (in questo caso locali) attraverso una certificazione chiamata «Designed in Saudi» che è anche il marchio di un’identità culturale proiettata nell’arte e nel design del futuro. «Qualcosa deve cambiare e noi dobbiamo far parte del cambiamento, ma in che modo?» è la domanda che ha accompagnato un altro tema rilevante affrontato dall’architetta saudita parlando di «Design for Charity». Un argomento ripreso in uno dei panel più interessanti tra quelli moderati da Waleed Shaalan, su come design e innovazione possano essere applicati in condizioni estreme per migliorare la vita nei campi profughi ovunque nel mondo.
A citare la drammatica realtà della crisi umanitaria che sta avvenendo in questi giorni (a poca distanza da qui) è stata Adwa AlDakheel, autrice, poeta, musicista, pilota e imprenditrice che condividendo le opinioni degli altri speaker, tra cui Talib Salhab e Manu Prakash, ha evidenziato l’importanza dell’ascolto e dell’empatia come elementi basilari nell’affrontare le diverse problematiche. Nella scala delle priorità: educazione, cibo/acqua ed energia elettrica. Ma non è impossibile immaginare un futuro migliore come ha mostrato Manu Prakash, scienziato indiano professore associato di bioingegneria alla Stanford University, che ha inventato diversi dispositivi a basso costo, tra cui il «foldscope» (insieme a Jim Cybulski) adottato da oltre 2 milioni di persone nel mondo. Un microscopio di carta, leggerissimo, pratico e giocoso perché incoraggia a sviluppare il senso di meraviglia, ma anche uno strumento serio che permette di individuare batteri, cellule del sangue, organismi unicellulari e insetti. Un esempio di «frugal science», il cui costo è di circa 1 dollaro statunitense, amato da grandi e piccini.
Tutte le foto: King Abdulaziz Center for World Culture (Ithra), Dhahran (Arabia Saudita) (ph Manuela De Leonardis)