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Viaggio sentimentale tra esperienze quotidiane: intervista a Chiara Ventura
Arte contemporanea
Lavorare con Chiara Ventura ti porta sempre a un processo di autoanalisi continuo e a una costante riflessione nella propria intimità per poter comprendere a pieno i processi creativi e di ricerca che caratterizzano il suo lavoro. warm waters è la sua mostra personale, che ho avuto il piacere di curare, e che avrà luogo dal 28 febbraio al 3 marzo, a Roma negli spazi di Supermartek, al B49 studio. Quattro giorni in cui abbiamo deciso di concentrare un progetto molto intenso con lavori significativi per la carriera e la vita di Chiara Ventura.

La mostra si configura come un viaggio visivo attraverso le complessità dei sentimenti umani, esplorandone le sfumature più profonde. Così come le acque calde che in natura si trasformano in correnti impreviste, allo stesso modo i rapporti umani possono sembrare rassicuranti, ma celano una complessità emotiva profonda e mutevole. La dualità di questo concetto rappresenta perfettamente la dimensione del sentimento esplorata da Ventura: un territorio familiare e sicuro, ma anche denso di tensioni.
Per raccontarvi meglio questa mostra, exibart ci ha dato l’opportunità e lo spazio per un dialogo sincero, che qui vi consegniamo.

Chi conosce il tuo lavoro sa che la decisione del titolo di una mostra o dei tuoi lavori non sono mai scelte di circostanza, ma sono risultati di lunghe riflessioni, che in un certo modo completano il lavoro stesso. Anche per questa intervista ti chiederei di partire dal titolo warm waters. Quali sono le ragioni che si nascondono dietro a questa espressione e quali le esigenze?
«Acque calde è anche il titolo di un’opera esposta, che vedo nel complesso come un punto nodale per tutto il concept, come se da essa si sviluppassero e avviluppassero le altre. Infatti, nell’immagine si presentano due piedi freddi, ghiacciati, sopra coperte che invece ardono. Il lavoro vuole immortalare poeticamente quel momento di estrema intimità e tenerezza in cui, all’inizio di un rapporto sessuale, le estremità inferiori del corpo del partner risultano gelate. Si crea un cortocircuito tra il fervore del momento, che tende all’unione dei corpi e quindi al calore, e quel piccolo istante di freddo distacco. Questo lavoro assieme alle altre opere in mostra cerca di esplorare gli aspetti più intimi dell’amore, ponendo l’accento sulle zone di imbarazzo e sulle contraddizioni. Il titolo l’ho proposto in inglese perché il fonema a mio avviso rende meglio una sensazione di grande accoglienza, inglobamento e calore appunto. In più, sempre riferendomi a ciò che il fonema mi trasmette, non provo una sensazione del tutto piacevole, e infatti la mostra è così, oscilla tra dolcezza poetica e punti scomodi. Il minuscolo per evitare un’eleganza che, in questo caso, mi sembrava forzata».

Proviamo a scendere in profondità adesso, per raggiungere anche un livello più intimo della tua ricerca e delle tue fonti. In questa mostra si esplora la fragilità e l’intensità dei legami umani. Ti andrebbe di raccontarci se ci sono state esperienze e/o legami umani che hanno influenzato la tua visione e la tua ricerca artistica per questo progetto?
«Le mie esperienze personali e la condivisione di queste con le persone che incontro, una condivisione reciproca in un’ottica di confronto sull’esistenza, sicuramente forma i miei punti di vista. C’è tanto di mio nei lavori, ma perché c’è tanto di universale, nel senso di umano. Chi, della nostra generazione, in questo momento preciso, non cerca di dare un nome alle cose che lo fanno soffrire? Con tutte le eccezioni che confermano la regola, vedo nei miei coetanei un esaurimento di fronte alle dinamiche tossiche che si creano nelle relazioni, indipendentemente dall’intimità di queste. Siamo la generazione che inizia a dire di no alle richieste scorrette e subdole di un capo a lavoro, sarebbe assurdo non farlo anche nei confronti delle forme patriarcali ereditate dai nostri genitori, nonni ecc. Certamente se parlo così tanto di non detti e delle contraddizioni nei legami profondi, se parlo così tanto di momenti e dinamiche specifiche di un rapporto che lascia il segno, è perché tutte quelle cose le ho attraversate o le sto attraversando. Non nego che la pratica artistica mi aiuti a snocciolare i miei traumi, ma ne faccio opera solo se il tema che emerge parla delle persone, alle persone e se i traumi non sono solo miei ma appartengono alla società. La finalità è sempre cercare di capire come stare bene, collettivamente. In questi termini mi viene quasi da dire che, per assurdo, non c’è niente di veramente personale».

Se pensiamo al tuo lavoro pensiamo alla performance, a opere video e ad alcune installazioni. Invece, in questa mostra troveremo tanta pittura. Nei nostri continui confronti siamo arrivati a definire la pittura come “la metafora di una relazione umana, in cui la gestualità si trasforma in un rituale intimo che assorbe e rilascia materia”. Perché hai sentito la necessità di esporre e produrre tanti lavori pittorici?
«Nasco come pittrice, ho sempre dipinto, e sempre in modo compulsivo, finché fare un altro quadro non diventerebbe maniera, lì mi fermo. Mi pongo nei confronti della pittura in modo equivalente rispetto alle altre tecniche, ma c’è sicuramente un’astrazione, un’aniconicità, e una delicatezza che mostra un fianco difficile da scoprire con la rigidità e la secchezza con cui utilizzo gli altri mezzi espressivi. Dipingere è quell’azione dove mi svincolo dall’urgenza soffocante e lascio spazio ad immagini libere, volutamente evocative. I quadri in mostra nello specifico appartengono a una serie intitolata Figure, ispirata al libro Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes. Pensandoli come un insieme (li realizzo sempre in grandi quantità contemporaneamente), li ho concepiti come frammenti didascalici del mio discorso amoroso, raccontando un senso di agitazione, uno scuotersi. Questo fare assorbire e spurgare il colore, come ti dicevo, è solo un pretesto per parlare ancora della liquidità dei rapporti e della loro complessità. Quello che rimane impresso sulle tele è un discorso gentile, fatto di gesti e trame di un turbinio mentale».

Djset, performance, video, più che una mostra warm waters sembra un’esperienza da essere vissuta nel giro di pochi giorni. Un evento mostra. Noti che il mondo dell’arte stia prendendo questa direzione? Se sì, è legato da nuove esigenze di chi fruisce della mostra oppure è proprio il mondo dell’arte che ha la volontà di cambiare allontanandosi da mostre lunghe e avvicinandosi a eventi pop-up?
«Il mondo dell’arte lo fanno le persone dell’arte, tutte insieme, chi fa, chi media, chi guarda e gli assenti. L’arte offre sempre uno spaccato della società, ed è indubbio che siamo in un momento dove i tempi lunghi sembrano non aderire al bioritmo della media e dove la FOMO dilaga. Se la formula dell’evento passasse dall’essere un altro modo per fare cultura, e quindi un modo che rispetta prima di tutto le esigenze del progetto, all’essere la costante, indipendentemente dalle specificità delle intenzioni degli artisti e dei curatori, allora a quel punto sarà doveroso interrogarsi sui motivi per cui si fanno le mostre e analizzare che cosa l’arte è diventata. Detto questo penso che sia ancora presto per tirare le somme sul tema».

Chi uscirà da questa mostra cosa dovrà aspettarsi? Quali sono le sensazioni che speri di lasciare a chi visiterà warm waters?
«Come al solito non do aspettative e non pretendo nulla, ci tengo che ognuno si faccia il suo viaggio. Certo io spero di lasciare una riflessione sull’amore e sull’amare, su come noi stiamo dentro a queste parole, e che la mia sensibilità riesca a mettersi al servizio di quella di chi guarda. Ogni volta è un po’ come saltare col paracadute, ma senza paracadute».