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Vincenzo Agnetti – videoteca GAM
Arte contemporanea
L’essere che può essere compreso è il linguaggio, diceva Hans Georg Gadamer negli anni sessanta del XX secolo. E per Heidegger, prima di lui, il linguaggio è, addirittura, “la casa dell’essere”.
Non così Vincenzo Agnetti (Milano 1926 – 1981), a cui la Videoteca della Gam dedica una piccola mostra gioiellino curata da Elena Volpato. Per Agnetti il linguaggio verbale, nel senso della lingua e dell’idioma, è mero codice da far implodere alla ricerca di una dimensione altra, fatta di voce, immagini acustiche e non, numeri.
La mostra fa parte di un ciclo di esposizioni sulla videoarte italiana degli anni sessanta e settanta, realizzate in collaborazione con l’Archivio della Biennale di Venezia, ed è fatta così bene da rientrare nel modo più nobile nel concetto di servizio pubblico. Con poche opere accuratamente selezionate, fornisce infatti una traccia esauriente del percorso artistico e concettuale di Agnetti.
Oltre ad alcuni libri d’artista, le opere in mostra sono tre: a parete sono esposti Assiomi (1969) e Frammenti di tavola di diario tradotto in tutte le lingue (1973). Centro dell’esposizione è però, appunto, il video Documentario n. 2 (1973).
Punto nevralgico del pensiero di Agnetti è appunto il tema del linguaggio, inteso come codice sostanzialmente equivalente a qualsiasi altro. Il codice linguistico è, allora, portato al suo estremo, fino a rivelare la propria radicale ambiguità. Significante e significato si scollano l’uno dall’altro, la parola collassa nel silenzio, i numeri prendono il suo posto.
Se nelle opere esposte a parete il vuoto, rappresentato dal fondo nero oppure dalla linea tracciata tra segni e numeri, evoca un silenzio profondo, annullamento di ogni dire fatto di parole, nel video il linguaggio documentaristico delle immagini si intervalla dapprima con immagini silenziose di spazi, poi ci restituisce una pagina di soli numeri. L’artista legge i numeri creando un vero e proprio discorso, di cui resta salva la sola intonazione.
Accade così qualcosa di analogo a quanto faceva Federico Fellini sul set, quando chiedeva agli attori di recitare con la sola intonazione della voce, pronunciando non parole ma numeri. Così Agnetti (ci) parla, si esprime, ma senza usare alcun codice linguistico, per lo meno nel senso dell’idioma.
Due i possibili livelli di lettura, che trovano un comune punto di incontro nella poesia che tutto pervade: il primo fa dell’opera fondamentalmente una ricerca semiotica, in cui significante e significato sono costantemente scollati e separati, fino a svuotarli di senso, e l’immagine acustica, nel senso di Saussure, non è che il numero. Ma se andiamo oltre ci accorgiamo di un aspetto ulteriore. Della parola assente, sostituita dai numeri, non resta che il flatus vocis: ma il suono che udiamo non non è neanche pura phoné, suono ideale e disincarnato. Oltre alla dimensione temporale, come sottolineava il testo di Derrida che ho evocato nel titolo di questo articolo, in Agnetti quella voce ha soprattutto un tono: che è molto umano, affettivo, emotivo, addirittura carnale. Nel tono della voce persiste, così, un elemento di materialità, di vita, che va ben oltre ogni codice linguistico in senso stretto e approda a un umanissimo significare poetico capace, inaspettatamente, di farsi corpo.