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Vintage oggi, in voga ieri: il “Salotto” secondo Carozzi e Giovando
Arte contemporanea
Anni fa nelle case italiane non trovava posto il concetto attuale di “living”, di uno spazio comune da “vivere”. C’era una volta il salotto, ambiente integrato alla casa quanto idealmente separato dalla stessa. Alla luce di una motivazione indiscutibile: doveva accompagnare le grandi occasioni, e non certo il quotidiano bivacco famigliare.
Siamo tra secondo dopoguerra e boom economico, ed ogni famiglia se lo teneva caro il suo “Salotto buono”. Quello che Elena Carozzi e Valentina Giovando rileggono concretamente, sotto forma di trattato socio-economico di un’Italia unita nello status symbol. Vintage oggi, così in voga ieri, quando il consumismo era solo alla porta e gli italiani altri, con altri sogni e bisogni.
Un salotto buono. E vero
Progetto lineare, ma non lezioso, “il salotto buono. Omaggio a Guido Rocca” difatti non calca la mano sulla pura finzione da teatro di posa. Con Lara Conte, curatrice assieme a Mario Commone e Raffaella Fontanarossa, impariamo che qui ogni elemento utile – dalla tenda in cellophane, alla pellicola che impacchetta alcuni mobili per non “sciuparli”, ad una quinta di assi in legno – è anche integrante all’allestimento. Un mood inclusivo anche per elementi endogeni come le grandi finestre dai vetri opachi. Che certo illuminano, ma assumono anche una seconda valenza, saltata fuori in un veloce scambio di battute con Carozzi: filtrano la luce esterna quanto filtrano lo spazio interno, separandolo idealmente – o magicamente se siete più romantici – dal tram tram contemporaneo. C’è poi da dire che fingere in uno spazio come quello del Laboratorio Rocca, con quel pavimento che ne avrebbe da raccontare e le pareti “bianco vissuto”, è una partita persa in partenza.
La sfida in salotto
«Ricreare il calore di casa in uno spazio industriale è stata una sfida» racconta Carozzi. Una sfida in cui le nostre si sono lanciate con un bel mix di senso pratico e passione, portando quel “calore” a confluire in una sorta di messa in opera scala 1:1 dei bozzetti di Rocca. Dalla carta alla realtà (sistema Ikea docet), per ritrovarsi in ambienti da (giocare a) vivere. Con tanto di pasticcini pronti da addentare – meglio di no «Hanno la muffa, sono di scena» dice ridendo Carozzi – e liquore Strega ad pronto sul tavolino coi suoi bicchierini.
Potete quindi scegliere di accomodarvi sul morbido divanetto in un vellutino verde, tra vasi di fiori in paillettes che donano all’insieme quel tocco di artigianalità d’altri tempi. Oppure spostarvi in zona tinello, verso una tavola che ricorda un Tableaux pièges di Spoerri post-lettura del galateo. Con tutti i crismi della tavola italiana vecchio stampo, ossia puntata all’attenzione per ogni suppellettile. I piatti ad esempio, in porcellana a fiori; la brocca e bicchieri lavorati, le posate d’epoca con tanto di stemma, e persino una tovaglia che sfiora il tappeto. Piccola borghesia per grandi occasioni.
Borghesia e sintonia
Carozzi e Giovando sono intervenute per “arricchimento capillare”, tassello dopo tassello ognuna con una pratica ben determinata. Con un’artisticità distinguibile, che nel caso specifico di Giovando non va nemmeno intesa in senso stretto, ma come una terzina artigianalità/design/object trouvé. Il suo “cambiare pelle” alle sedie grida opulenza almeno quanto la maestosità del grande lampadario; che a sua volta si abbina elegantemente ai due grandi arazzi dipinti da Carozzi, tra vegetazioni abitate da caprette, pecore e galline di un’amenità perfettamente fuori dal nostro tempo. C’è aria di salotto buono, borghesemente accogliente, ma anche di una sintonia palpabile. E che fa bene a questa mostra.