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What Presence, contemporaneità dell’arte astratta alla Galleria Luca Tommasi di Milano
Arte contemporanea
di Ugo Perugini
L’astrattismo nasce nei primi anni del Novecento (Kandinskiy, Klee) insieme al desiderio di superare certi paradigmi illuministi e razionalisti e come rifiuto di sottomettersi alla realtà. Da allora, il processo di evoluzione della pittura astratta è stato inarrestabile, un fiume in piena, difficile da contenere, che in certi casi ha tracimato, in altri ha messo allo scoperto detriti e scorie poco significative. Comunque sia, l’astrattismo in pittura ci ha consegnato una verità indiscutibile: il linguaggio visuale non può che essere polisemico. Come sostiene Roland Barthes, in mancanza di un codice o di un contesto interpretativo esplicito il messaggio diventa automaticamente soggettivo e interpretabile in molti modi e a seconda di chi vi si approccia.
What Presence, la mostra allestita presso la Galleria Luca Tommasi di Milano, in via Cola Montano 40, con l’esposizione di opere di dieci artisti di levatura internazionale, cerca di fornire qualche coordinata più precisa per cogliere il senso di alcune scelte creative che hanno caratterizzato il periodo che va dagli anni Settanta ai successivi anni Ottanta/Novanta del secolo scorso. Si tratta, anche in questo caso, di una impresa tutt’altro che semplice. Ma Alex Bacon, in un suo articolato intervento di presentazione della mostra, ha fornito molti elementi sui quali riflettere per esplorare i diversi sistemi utilizzati dagli artisti di tre generazioni per ritrovare nella pittura, un mezzo espressivo che si stava svuotando di senso, un rilancio creativo.
Il punto di partenza è l’opera di Joseph Marioni, intitolata Red 2012, acrilico su tela. Siamo di fronte a un monocromo che però non va inteso come ricerca minimalista di “reductium ad unum”. Piuttosto è la ricerca del grado zero dell’arte astratta, il punto limite nel quale ogni ridondanza, ogni anomalia viene espunta dalla elaborazione artistica in quanto basta l’efficacia eloquente del colore in sé, che comunque lascia visibile anche la traccia della pennellata della mano dell’artista.
In questo senso, viene meno la configurazione teleologica dell’opera, cioè l’idea che l’artista debba per forza mirare al raggiungimento di uno scopo sia etico-conoscitivo o puramente edonistico. Al contrario, ciò che in un’opera resiste a qualsiasi tentativo di spiegazione o di senso (l’indicibilità) può essere proprio l’aspetto più stimolante che catalizza e orienta l’atto di fruizione e alimenta infinite, spesso provvisorie, dimensioni ermeneutiche, che però oltrepassano una passiva contemplazione dell’opera e della sua mera esteriorità.
Interessanti anche i lavori di Carmengloria Morales, Dittico S 18-3-01, 2018, pigmenti, metalli, acrilici su tela. I lavori geometrici a griglia di Peter Halley, Peter Schuyff, Daniel Sturgis e Mark Francis che vivono di espliciti riferimenti storici. Senza ignorare le colate di stampo processuale di John Armleder e Ian Davenport.
Sono artisti che accanto all’astrazione geometrica, si lasciano sedurre dagli sconfinamenti nell’Optical Art, non solo per provocare un impatto ottico in chi guarda ma anche per lanciare un richiamo allo stordimento dei sensi visivi (Shuyff), ai circuiti stampati e ai sistemi di controllo (Halley) messi in atto dalla società in cui viviamo.
Originale l’apporto di Alexis Harding con le sue tecniche di lavorazione dell’opera che si avvale di contributi chimici e le idee di Jonathan Lasker che con ironia affronta il tema della metafora, dando valore soggettivo al colore. Qui i filoni si mischiano e si intrecciano, tra spinte concettuali, progressiste, tattiche shock: definire una identità propria in un mondo artistico dove proliferano e si ibridano in continuazione le idee diventa impresa improba ma per certi aspetti anche affascinante.
La mostra What Presence sarà visitabile presso la galleria Luca Tommasi Arte Contemporanea fino al 14 aprile 2024.