La sua storia inizia a Sagua la Grande, Cuba, e continua in giro per il mondo, tra vecchio e nuovo continente. Poi l’incontro con Albisola, il mare della Liguria e la ceramica, cultura secolare di cui Wifredo Lam (1902 – 1982) s’è follemente innamorato. Fino al 9 ottobre, al Museo della ceramica di Savona, Lam – assieme agli altri grandi nomi che tra gli anni ’50 e ’70 hanno rappresentato la stagione più focosa della produzione ceramica albisolese – è protagonista di Lam et les Magiciens de la Mer. Progetto espositivo che Luca Bochicchio, curatore assieme a Stella Cattaneo, indica come una «Mostra di ricerca», dove attraverso «Pezzi poco noti e poco studiati» si vuole inquadrare in prospettiva extra-pittorica un artista per cui «La ceramica non era estemporanea».
La nostra intenzione ora è rimettere insieme i “punti d’interesse” di un percorso tra ricerca artistica e rapporti umani, facendoci aiutare da un cicerone d’eccezione: Eskil Lam, figlio di Wifredo e persona informata sui fatti di quel mitico periodo albisolese.
Caro Eskil, lei è figlio di un nome noto del contemporaneo. Ma chi era Wifredo prima di essere Wifredo Lam?
«Mio padre era un giovane partito per la Spagna nel 1923 per rincorrere il sogno di diventare ritrattista. L’ambiente spagnolo in quegli anni era ancora piuttosto classico. Affinando sempre più la sua tecnica, Wifredo produce diversi ritratti, anche su commissione. Gli anni ’30 segnano poi una svolta: le incursioni del Surrealismo e di altri movimenti d’avanguardia lo portano a variare molto gli elementi della sua pittura, sperimentando l’uso dei colori alla maniera di Matisse e definendo in modo molto netto le silhouette delle sue figure. L’arrivo a Parigi, nel 1938, e l’incontro con Picasso sono poi decisivi per la formazione di Lam. Il padre del cubismo è per lui un catalizzatore potente per nuovi approdi formali ma soprattutto per una ricerca interiore che porterà Lam a riconoscere il valore delle sue radici culturali e portare l’immaginario afro-caribico al centro del suo mondo espressivo.
Ma al di là di tutto questo, Wifredo era mio padre. Persona di buon umore e calorosa che si incupiva unicamente quando ricordava passaggi tragici della sua vita e della storia europea e non solo. La guerra civile di Spagna, dove aveva combattuto nelle fila dei repubblicani, e gli anni della Seconda Guerra Mondiale, che lo avevano costretto a spostarsi da Parigi verso Marsiglia con altri artisti e intellettuali e poi a fare ritorno a Cuba nel 1941, lo avevano segnato molto. Era un uomo impegnato a difendere le proprie idee, questo lo ricordo bene. Ero troppo piccolo per capire fino in fondo, ma sentivo che c’era la volontà di appoggiare le cause terzomondiste e di difendere la posizione di paesi ancora troppo ai margini.
Ricordo poi come Wifredo amasse molto Albisola, questo paesino affacciato sul mar Ligure. Arrivavamo qui da Parigi, soprattutto in estate, e mio padre ritrovava un pezzettino della sua Cuba: pitturava, incideva, faceva ceramica. Sono certo che trovasse ad Albisola un ambiente tutto particolare, che lo predisponeva a una creatività e a una tranquillità particolarmente funzionali alla sua produzione, diversamente da Parigi, dove i ritmi erano sempre più intensi».
Arriva un punto in cui Albisola diventa un contesto a lei familiare. Prima con Jorn, poi con suo padre e il passaggio di svariati protagonisti del panorama contemporaneo, in quel periodo un gran fermento creativo ha fatto irruzione in un contesto territoriale piuttosto ristretto e radicato sulla sua tradizione. Mi dica: com’era vivere la Albisola della famiglia Lam?
«I ricordi sono principalmente quelli di un bambino che associava naturalmente Albisola all’estate, alla vacanza, alla spiaggia. Da metà giugno fino ai primi di settembre ci trasferivamo tutti lì, nella casa sulle prime colline. Io e i miei fratelli prima restavamo con una babysitter, poi in autonomia, già attorno ai dieci anni, trascorrevamo le giornate in spiaggia con i nostri amici, tra cui comparivano persone che ho recentemente rincontrato, a distanza di tanti anni, in occasione delle inaugurazioni della mostra Lam et les Magiciens de la Mer. Mio padre e mia madre, Lou Laurin, ci raggiungevano al mare solo all’ora di pranzo per condividere insieme un’insalata mentre i nostri amici italiani non si facevano mancare un piatto di pasta, anche sotto il sole!
Trascorrevamo anche del tempo con quelli che erano “gli amici di mio padre”: Asger Jorn, Guy Debord, Alain Jouffroy, ad esempio. Non ho mai avuto scambi alla pari con loro, perché chiaramente ero un ragazzino, ma ricordo questa incredibile effervescenza che faceva di Albisola un posto in cui tutto poteva avvenire».
Parliamo di ceramica. La cui produzione, parere personale, ha trasceso il tempo, conservando ancora oggi un fascino ancestrale. Un fascino che, sempre parere personale, fa il paio con molti dei segni concepiti e tracciati da Lam. Quella tra suo padre e l’arte fittile è stata un’attrazione fatale?
«Direi piuttosto che si è trattato di un innamoramento graduale, fino al colpo di fulmine avvenuto negli anni Settanta. La produzione ceramica ha avuto un ruolo importante nella carriera di mio padre per circa vent’anni, dalla fine degli anni Cinquanta fino alla morte nei primi anni Ottanta. Si tratta di una produzione molto rilevante, dal punto di vista della qualità ma anche della quantità: gli Archives Wifredo Lam di Parigi contano oltre 350 ceramiche, realizzate quasi esclusivamente ad Albissola Marina.
Per un artista in costante movimento, come è stato mio padre, non è scontato sottolinearlo. Eppure ad Albisola, terra dall’antica tradizione ceramica, Lam trova nella lavorazione dell’argilla un nuovo esito per la sua ricerca. Pur avendo approcciato questo materiale a Cuba e poi a Santa Margherita Ligure negli anni Cinquanta, è nella cittadina ligure che sperimenta davvero le possibilità espressive della ceramica.
Si parlava prima del fermento creativo degli anni del secondo dopoguerra ad Albisola e probabilmente, all’inizio, ancora più della fascinazione per il materiale, si innesca un grande interesse per quel contesto ambientale, sociale e culturale, lontano dai grandi centri artistici, eppure in grado di attrarre artisti e intellettuali tra i più aggiornati sul contesto internazionale».
Rispetto alla pittura, che di per sé lascia un margine di approccio più variegato, la ceramica chiede – oppure offre, dipende dai punti di vista – un rapporto con la materia obbligatoriamente più diretto. E allora le chiedo: poiché di quel rapporto tra suo padre e la materia oggi resta solo ciò che potremmo definire il “risultato”, costituito dai lavori fatti e finiti visibili in mostra, ha qualche ricordo/aneddoto particolare su Wifredo Lam all’opera?
«Arrivato ad Albisola, mio padre viene introdotto alle Ceramiche San Giorgio, manifattura tuttora esistente, fondata alla fine degli anni Cinquanta da Eliseo Salino, Giovanni Poggi e Mario Pastorino. Asger Jorn lo introduce a Poggi, grandissimo uomo e fine artigiano da poco purtroppo scomparso, anticipandogli che il pittore che avrebbe portato in bottega sarebbe stato addirittura più bravo di lui. Poggi e Lam si erano già incontrati a Santa Margherita Ligure qualche anno prima e ad Albisola instaurano una collaborazione professionale strettissima e un’amicizia ancora più profonda.
A fine giornata, quando mi ritiravo dalla spiaggia, passavo alle Ceramiche S. Giorgio e ricordo il continuo confronto tra Giovanni e mio padre. Come dicevo prima, Lam era nuovo alla lavorazione della ceramica ed era in buona compagnia: erano pochi gli artisti che conoscevano i segreti di una produzione così tecnica. Non a caso Asger Jorn parlava delle Ceramiche San Giorgio come la “Fabbrica dei sogni”, dove tutto poteva prendere forma, grazie agli abilissimi maestri ceramisti, eredi di una tradizione secolare.
Mio padre adorava lavorare con il supporto di Poggi e di Silvana Priametto. Se non erano in bottega, preferiva fare una passeggiata e ritornare. All’interno delle Ceramiche San Giorgio costruivano una sorta di zona appartata e defilata dove poteva sperimentare: mentre le forme erano preparate su sua indicazione dai ceramisti, la parte immediatamente successiva di modellazione, incisione e pittura riservava sempre sorprese, stimolando anche una genuina curiosità da parte di mio padre.
Nelle sue ceramiche si può riscontrare una progressione: all’inizio si tratta principalmente di trasporre la pittura su un materiale nuovo, poi comincia l’attrazione verso gli aspetti plastici della materia, sempre in dialogo e con la collaborazione dei suoi amici ceramisti».
Per di più, rispetto ancora alla pittura, la lavorazione della ceramica è un processo in cui non sempre il risultato finale segue le aspettative iniziali. Nello specifico, suo padre come si rapportava a questo, intendo alla possibilità di un controllo “non totale” sulla realizzazione di un’opera?
«Credo che questo aspetto abbia contributo a creare interesse negli artisti che hanno frequentato Albisola in quegli anni. Ricordo molto bene che entrando in bottega, si poteva subito percepire se una cottura era andata a buon fine, se c’erano state delle rotture nel forno, se mio padre era soddisfatto o se invece qualcosa era andato storto, mandando in fumo il lavoro di tutto il gruppo.
Tuttavia, la trasformazione che la ceramica subisce in tutte le sue fasi è sempre stata interpretata da mio padre come un’opportunità: controllava alla perfezione la sua pittura, ma amava sperimentare con i materiali. L’innesto di cocci di vetro che in cottura si sarebbero fusi, creando effetti inaspettati, l’introduzione di sabbia recuperata direttamente dalla spiaggia, o ancora l’utilizzo di mezzi non convenzionali per lasciare un segno. Solo alla fine dell’intero processo era possibile verificare se le intuizioni della fase creativa avrebbero dato l’effetto atteso».
Prima di approdare ad Albisola, Wifredo Lam ha girovagato abbastanza da sperimentare sulla propria pelle l’azione contaminante di ciascun ambiente in quanto “ecosistema sociale”. Dai primi contatti alla fine degli anni Cinquanta alla scomparsa nel 1982, quanto pensa abbia influito quell’atmosfera ligure, umanamente e artisticamente, su suo padre?
«Mi piace dire e pensare mio padre come un nomade, un uomo che ha trascorso la sua vita in movimento, tra un continente e l’altro. Un uomo che in ogni contesto ha saputo ritagliarsi un suo spazio e che verso Albisola provava un vero senso di appartenenza. Il contesto ambientale e socio-culturale di questo luogo è stato determinante per far sì che mio padre trovasse il suo posto in un piccolo e caratteristico centro. Al di là del lavoro in senso stretto, qui c’erano i suoi amici artisti, i ceramisti, ma anche le famiglie di albisolesi con cui avevamo legato: i Poggi, i Siccardi, i Nicolini, ad esempio. Ciascuna di queste persone ha lasciato un segno e Albisola è diventata la nostra seconda casa».
Concludo prendendo in prestito il titolo della mostra, Lam et les Magiciens de la mer. Agli occhi del piccolo Eskil, Wifredo Lam è stato effettivamente un mago?
«Devo dire che non ho mai visto mio padre come un mago. Certo era affascinante vederlo al lavoro, creare figure, mescolare i colori. Per me però era solo il mio papà e l’unica cosa che avrei voluto, siccome aveva già un’età piuttosto avanzata quando io ero un ragazzino, sarebbe stata poterlo portare con me a giocare a calcio!».
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