Woman is the new media: Spaziomensa in conversazione con Miltos Manetas

di e - 28 Gennaio 2021

Miltos Manetas (Atene, 1964) è il primo ospite degli SPAZIOMENSA Talks. Invitato in occasione del progetto sviluppato per “Maker Art”, sezione Arte della Maker Faire Rome – The European Edition, Manetas delinea le coordinate teoriche del suo progetto, originato dalla suggestione della struttura architettonica del Gazometro, in conversazione con il filosofo Giuseppe Armogida, la curatrice Gaia Bobò e l’artista Alessandro Gianní.

In questo dialogo, pensato come nota a margine della conversazione, Giuseppe Armogida e Gaia Bobò riflettono sulle tematiche emerse rintracciandone le possibili implicazioni teoriche.

Conversazione a due intorno a Miltos Manetas: le parole di Bobò e Armogida

Giuseppe Armogida «È cosa nota che conversare con Miltos Manetas è come entrare in un teatro, in cui le diverse immagini fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano incessantemente in maniera non-lineare, con un’infinita varietà di atteggiamenti e situazioni. Questo è il motivo per il quale vorrei provare a tracciare con te, più che delle chiose o delle glosse, delle postille marginali al discorso di Manetas.

Sicuramente un tema che scorre come un fiume carsico lungo tutta la conversazione è il rapporto tra linguaggio e potere. Mi è sembrato di capire che, per Manetas, nella sua maniera di esercitarsi nelle relazioni tra soggetti, il potere si manifesta nell’ordine del discorso; e che solo l’“apocalisse” sarà in grado di rivelare un “al di là” delle relazioni di potere e del tipo di assoggettamento cui esse danno luogo, seguendo con ciò una prospettiva che è quella dell’emancipazione dalla logica vincolante del Potere.

Io, invece, a differenza di Manetas, credo che la “rivelazione” ci sia già stata; credo, cioè, che, nell’essere una modalità dell’assoggettamento del soggetto, l’ordine del discorso si sia già rivelato anche come luogo di pratiche di resistenza all’assegnazione discorsiva del soggetto, come luogo in cui il soggetto possa avere un “atteggiamento critico”, ovvero una potenza di problematizzazione e di sovversione.

Come ha ben visto Foucault, infatti, oltre ad essere strumento ed effetto di potere, il discorso può anche essere ostacolo, intoppo, punto di resistenza ed inizio di una strategia opposta. Allora, mi chiedo – e ti chiedo – se, all’interno di questo gioco complesso ed instabile, non sia proprio la parola artistica, una parola socialmente situata, incarnata e investita da rapporti di potere, a rimettere in questione tali rapporti, se non a disfarli, appoggiandosi sulla loro contingenza. Insomma, mi sembra che, grazie al suo statuto eterotopico, l’arte riesca, a certe condizioni, a squarciare ed eludere lo spazio omogeneo e ordinato del discorso, a porsi come un “contro-spazio” nella rappresentazione ordinaria del mondo, minando segretamente il linguaggio e spezzandone la “sintassi”».

Gaia Bobò «La capacità della parola artistica di “spezzare la sintassi” del linguaggio, trovo, risiede nella sua qualità intrinsecamente visuale: in quanto immagine, questa riesce a dinamitare il flusso lineare del discorso, stravolgendone le logiche e conducendolo verso il suo punto di crisi. Se si può parlare di creazione di “immagini” già nella poesia lineare o nella prosa poetica, in modo ancor più evidente questo processo si compie nel contesto delle arti visive (e qui il tuo rimando a Foucault si rende doppiamente necessario!). Una contaminazione dalle radici antiche, che raggiunge una fase di maturità grazie all’esperienza delle Avanguardie Storiche e, con chiarezza ancor più radicale, nella neoavanguardia della Poesia Visiva con i suoi successivi sviluppi.

Mi sembra poi che questa capacità “liberatrice” dell’immagine si incroci bene con un altro tema del discorso o “delirio” di Manetas, quello del rapporto tra femminile e linguaggio. Sono infatti molteplici le letture che hanno associato la capacità prevaricatrice del verbale ad uno schema maschile, contrapposto ad un femminile che si identifica proprio con l’immagine.

È molto interessante, in questo senso, l’esperienza artistica delle scritture asemiche nella produzione femminile come tentativo di minare l’ossatura patriarcale del linguaggio. Mi piace allora pensare alla prospettiva apocalittica profilata da Manetas, e generata dalla donna come “new media”, non in una prospettiva di subordinazione senza uscita, ma piuttosto in un’ottica di tabula rasa e rinascita».

GA «Un “re-incantamento del mondo” – per riprendere il titolo di un libro di Silvia Federici – contro il disincanto patriarcale-capitalista. La “presenza femminile” – dice Manetas –, grazie alla sua capacità di ascoltare le “voci” degli alberi e quelle degli animali, è l’unica forma di resistenza in grado di opporsi alla violenza del “sistema operativo maschile” del mondo, che ha come obiettivo la distruzione irreversibile del pianeta. Credo anch’io che le condizioni ecologiche attuali e le urgenze sistemiche che abbiamo davanti richiedano un femminismo in grado – come sostiene Donna Haraway – di allargare, ridefinire e “generare parentele”, per il semplice fatto che tutte le creature della Terra condividono la stessa “carne” e sono quindi imparentate. Ti sembra che questo pensiero, per così dire, “ecologico multispecie” abbia contaminato anche la dimensione estetica?».

G.B «Assolutamente, direi anzi che incarna una delle risposte più interessanti alla questione della sostenibilità dei paradigmi e delle pratiche culturali del futuro, al vaglio di artisti, curatori e filosofi su scala internazionale. Mi viene in mente il progetto The Shape of a Circle in the Mind of a Fish di Lucia Pietroiusti e Filipa Ramos, così come la sfaccettata ricerca sull’animalità di Felice Cimatti. KABUL Magazine, poi, è una realtà editoriale estremamente attiva su queste tematiche».

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