Abbracciare l’Etna, con i suoi suoni e i suoi boati. Pancia contro pancia. Sentire il rumore del mondo.
Curata da Annette Hofmann, ETERE è la mostra personale dell’artista e compositore Yuval Avital. Noto per le sue grandi installazioni e per la creazione di complesse opere multimediali capaci di sfidare le tradizionali categorie artistiche, Avital ha progettato appositamente per BUILDING un percorso espositivo ben 127 opere, di cui molte inedite.
Ogni piano presenta un mondo onirico a sé. Ogni spazio si costituisce come un microcosmo capace di reggere equilibri diversi, tra identità e subconscio, oscurità e luce, amore e desiderio. ETERE si configura come un ambiente immersivo e totalizzante in cui confluiscono diversi linguaggi e strumenti.
Il fil rouge del progetto è la fiaba “Il Cuore e la Fonte”, tratta dal Racconto dei sette mendicanti del Rabbino Nachman di Breslav. ETERE ne è la trasposizione metaforica, dinamica e sensoriale.
Ma cosa significa vivere l’ETERE? Come spiega Avital, «Vivere l’Etere significa per me tentare di essere completamente dentro le cose […] Non osservarle dall’esterno né concettualizzarle, ma immergendomici”. Il desiderio celato dietro ogni opera presente è quello di raccontare – in parte – la verità nascosta nelle cose. La verità, o meglio dire precisa Avital, la veritarietà, è ciò che costituisce il viaggio esperienziale a BUILDING.
Alla fine esatta della giornata, l’Uomo Veramente Gentile dà al Cuore il dono di un giorno. Il Cuore dà il giorno alla Fonte, e la Fonte ha di nuovo del tempo […].
Il primo piano, Cuore del mondo, è dove si trova Cuore di Etna (2021), un imponente cubo di corte sulla superficie del quale si trova un filo rasente di acqua. Qui si sente il rumore del centro del mondo, il canto del vulcano – costituito da ultrasuoni non udibili dall’orecchio umano, ma sapientemente registrati dall’Istituto Italiano di Fisica e Vulcanologia. È meglio lasciarsi andare.
A seguire, troviamo parte della serie fotografica museale Foreign Bodies (2019). Nei video presenti vengono ritratti i corpi nudi delle performer Lauren Okadibo, Sandra Klimek e Anita Lorusso. Contrariamente al significato medico, i “corpi estranei” sono i loro corpi, che si intromettono tra rocce e arbusti, violando l’equilibrio della natura, cruda ma al contempo quieta.
A chiudere la sala, la scultura site specific Singing Tubes n.1, Mammouth (2021), i cui tubi in PVC, arricchiti da garze e strati di acrilico bianco mimano lo scheletro dell’animale, emettendo armonie che salgono al cielo. È sufficiente avvicinare il proprio orecchio ad una delle aperture per poter sentire la voce dell’artista, che pare quasi una litania altra.
Salendo le scale dell’edificio ed entrando nella sala del primo piano, si viene avvolti da luci e tenebre. Ecco l’inconscio, tra i corvi ritratti da fotografie in bianco e nero, simboli delle anime inquiete e della morte stampate su lastre di alluminio.
Un significativo numero di tele è appeso alle pareti, creando un turbinio. Tra queste, vi è Medium Armageddon (2018), una grande opera nella quale la pittura è cruda, tagliente e pare aver un peso nettamente superiore al supporto cartaceo.
Anime, fuoco e una foresta animano la stanza, tra luce e oscurità.
A chiudere il cerchio, vi sono le Singing Mask (2019), maschere sonore progettate da Avital e realizzate in collaborazione con i più grandi mastri artigiani di Firenze, tra i quali Alessandro Marzetti, Mezzanti Piume, Artistica Mariani e Massimo Galleni.
Disegnati durante i momenti di contemplazione durante il primo lockdown nel marzo 2020, le tele acquarellate danzano sulle pareti e rappresentano uccelli, colti nelle più disparate espressioni e azioni.
Al centro, vi è Mediterranean Altar n.1 (2020), un altare mediterraneo ancestrale composto da mattoni, ciotole di rame e altoparlanti, dentro i quali vi sono dei ceci, simbolo di nutrimento. Il suono dei ceci evoca un coro sacro. L’installazione simboleggia il potere della costruzione, ma anche l’abusivismo. La ciotola, invece, rimanda alla cultura ebraica dell’artista e al fatto che, durante le feste, chi non si può permettere uno strumento batte su queste, una campana e dei ceci.
Ponte tra luce e fonte, in bilico, l’intimità. Family in Holy Land (2020) è questo: intimità, fragilità, carezze e solitudine. La famiglia in terra santa rappresenta l’autoritratto di Yuval Avital, posizionato al centro, accanto alla figlia. Sul fondo, una donna dai capelli lunghi e neri -la moglie- che alza le mani al cielo. Ognuno guarda oltre chi osserva, dando una sensazione di sospensione e atemporalità. Non solo, Family in Holy Land (2020) racconta il limbo vissuto dall’artista, come lui stesso racconta, il quale vive tra Milano e Gerusalemme.
Giungendo alla vetta, si arriva alla fonte e si viene abbracciati dall’acqua proiettata sulle pareti e dalle partiture musicali emesse da due light box. Qui, l’uomo sale al cielo e aspira alla misericordia, in un eterno senso di ascensione e desiderio di infinito.
Avvicinandosi alle pratiche d’arte partecipativa, la ricerca di Yuval Avital comprende l’utilizzo di pittura, scultura, performance, video e fotografia, spesso in relazione con la componente sonora. Avital si confronta con il territorio che abita, spesso coinvolgendo comunità o piccoli gruppi di persone per comporre un momento umano unico, in completo dialogo. Come mi racconta Avital, la vulnerabilità svolge un ruolo fondamentale per far sì che possa entrare in relazione con l’Altro, che costituisce la vera essenza di tutto il suo lavoro.
Se prima nel vocabolario della sua pratica vi erano parole quali mistero, uomo e natura, ora si aggiunge veritarietà – e non verità, perché «Come mi ha fatto capire Michelangelo Pistoletto, verità è una parola dura e bisogna prestare attenzione al suo utilizzo».
Siamo tutti incompleti. E vulnerabili.
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