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Zapping tra la videoarte italiana, in onda al Centrul de Interes di Cluj
Arte contemporanea
Si Inaugura oggi a Spatio Insitu, nella città di Cluj-Napoca, vecchia capitale della Transilvania, capoluogo culturale importante del nord-ovest della Romania, “Il Video rende felice: zapping fra la videoarte in Italia”. L’evento, a cura di Valentina Valentini, dall’11 settembre al 17 ottobre, trasformerà metaforicamente, gli spazi del Centrul de Interes in un archivio temporaneo che ripercorre le tracce dello sviluppo storico di questa pratica artistica che, dall’interno di un contorno geografico nazionale, tende a rimarcare apporti, relazioni e contaminazioni, rispetto al più ampio panorama internazionale.
La necessità di dover organizzare un discorso unitario intorno a una nuova narrazione cronologica, nasce dalla problematicità storico-critica di riconnettere, come afferma la curatrice Valentini, le esperienze italiane troppo spesso isolate in «casi unici eccezionali». Valentini, oltre a essere un’insegnante di arti performative ed elettroniche presso la Sapienza di Roma, è stata precorritrice negli anni Novanta delle produzioni più immateriali della ricerca artistica contemporanea, curando importanti monografie, come quella di Bill Viola e Studio Azzurro.
In Romania, la storia della videoarte italiana
Si nota subito nelle premesse all’esposizione, una visione critica che si amalgama a una storiografica. Si comincia dagli anni ’70, con l’attività promossa da Art/Tapes/22, un centro di produzione di videotape di artisti prodotti in venti esemplari firmati e numerati, con un’accentuata matrice internazionale (aveva infatti una sede a Parigi e una a New York in collaborazione con la galleria Castelli-Sonnabend). L’esperienza dura tre anni, fino al 1976, ma riesce ad attrarre autori del calibro di Baldessari, Boetti, Kounellis, Palestine, Paolini, Lüthi e Rainer. L’attenzione poi risvolge verso una produzione video legata alla scena teatrale con la nuova immagine elettronica, che trova tra i suoi fautori Studio Azzurro.
Nello scarto tra queste due parti dell’esposizione, si può leggere un approccio più consapevole dell’artista rispetto al potenziale tecnologico che, meglio analizzato nelle sue componenti potenziali espressive, si cimenta sempre più come linguaggio autonomo (d’altronde come già fu per la fotografia prima, e il cinema dopo).
Gli snodi della videoarte
L’esposizione a questo punto si snoda offrendo ulteriori percorsi di visione, elaborati da altri curatori, com’è il caso di “Loneliness. Art in the age of Covid”. Il curatore, Valentino Catricalà, direttore della Sezione Arte della Maker Fair di Roma, apre a una riflessione sulla chiusura vissuta durante il lockdown, intesa come nuova condizione umana, mettendo insieme alcuni lavori dei tre principali artisti del panorama videoartistico italiano: Masbedo, Daniele Puppi e Rä Di Martino. Di quest’ultima è significativa l’opera Poor Poor Jerry, in cui la solitudine più laconica si prosciuga nell’ultima goccia della briosità del nuovo millennio, assumendo la forma della graphic game dei Cartoon.
Segue “Video art as activism”, la sezione curata da Dalila D’amico, che analizza invece le aree di creatività marginali rispetto alla produzione più propriamente artistica, mettendo in luce i possibili risvolti di un’indagine laterale rispetto all’ambiente culturale sociale, con i lavori di Wu Ming 2, Patrizio Partino, Canecapovolto, tra gli altri.
Ripensare il rapporto dell’uomo con i media, che il lockdown ha reso ancora più stringente, può e deve passare anche attraverso una revisione critica proprio della videoarte che, come processualità, si è posta fin dall’inizio la modificata condizione umana nella società della tecno-scienza. E se questo discorso intimo dobbiamo sostenerlo fuori dall’Italia, che sia in Romania, la terra che dette i natali a Stefan Odobleja, precursore della cibernetica.