Alla voce “scenografia” sul dizionario Treccani si legge: “Arte e tecnica di creare (cioè ideare, per lo più curandone o dirigendone anche la realizzazione) le scene per una rappresentazione teatrale, cinematografica o televisiva”. Dopo il Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti alla Biennale di Venezia, alle Tese delle Vergini, dovremmo anche aggiungere “e per padiglioni d’arte”. Perché ad essere ricordato del suo progetto — al netto di tutti i riferimenti letterari, sociali e storici che l’artista e il curatore Eugenio Viola vi hanno associato — sarà il mastodontico, suggestivo, a tratti inquietante, allestimento scenografico e scenotecnico di ciò che è stato presentato come una “macchina narrativa esperienziale”. Ma cosa c’è di “ricreato”, di simulato e cos’è reale/realistico? La forza dirompente forse sta proprio lì, nel gioco magistralmente architettato di questa dualità — tra fittizio e reale, socialmente documentaristico e smaccatamente teatrale — senza soluzione di continuità.
Sono veri i macchinari datati che provengono da una fabbrica, quanto è vero il telefono vintage nella stanzetta dell’operario/a ormai abbandonata (al quale però sembra che il gestore telefonico si sia dimenticato di disattivarne la linea). Sono vere le reti del letto, anche se non sufficientemente usurate per essere state realmente vissute da qualcuno, così come le bobine, non troppo consunte, sui tavoli nell’area della manifattura, ma sono state disegnate ad hoc le luci che illuminano ogni postazione. È ricostruito il piccolo pontile, su cui non possono salire più di poche persone alla volta, così come la porzione di mare agitato e le fioche luci in lontananza che dovrebbero, secondo l’artista, evocare le lucciole, riferendosi all’articolo di Pier Paolo Pasolini — Il vuoto del potere, pubblicato sul Corriere della Sera, 1° febbraio 1975 — in cui scriveva “Darei l’intera Montedison per una lucciola”. È di Gian Maria Tosatti la parete di lastre metalliche di cui non tutti sembrano essersene accorti. È questa la sola autentica opera che l’artista ha prodotto per Venezia e che rimarrà, una volta smantellati il set e la cornice narrativa? I macchinari, le casse, gli aspiratori torneranno dove sono stati prelevati o verranno conservati in un magazzino in quanto lavoro installativo dell’artista? E la poesia? E le lucciole, ricordo nostalgico di un tempo che fu? Svanirà tutto magicamente come quando in teatro scende il sipario.
Mai come in questo progetto la scenografia, la scenotecnica e l’illuminotecnica hanno avuto un ruolo fondante e imprescindibile. Non a caso nel colophon del Padiglione queste voci vengono riportate subito dopo il nome dell’artista. Per questo abbiamo incontrato Margherita Palli, artefice dell’allestimento scenografico del Padiglione.
Ti è piaciuto il Padiglione Italia?
Sorride (n.d.a)… Io davvero il padiglione finito non l’ho ancora visto. Ero a fare uno spettacolo di Weil e Brecht a Parma e soprattutto ero sull’isola di Porquerolles a lavorare a una mostra alla Fondation Carmignac (Le songe d’Ulysse, curata da Francesco Stocchi, n.d.a).
Quando e come è nata la collaborazione con Gian Maria Tosatti?
Non sono un’esperta d’arte. Sapevo di alcune cose che aveva fatto per il teatro, ma non lo conoscevo di persona. Ho degli amici comuni melomani che, quando doveva partecipare al concorso, gli hanno fatto il mio nome per aiutarlo a mettere in scena questa cosa. Lui ha sempre fatto progetti andando in posti che esistevano e facendo degli interventi. Qua doveva costruire anche il posto! Aveva bisogno di gestire un cantiere di 1600 metri quadri.
Da cosa siete partiti?
In una prima fase abbiamo elaborato il progetto con lui (Parla al plurale perché si riferisce indirettamente ai suoi due preziosi assistenti Marco Cristini e Francesca Guarnone, n.d.a). Mi riferisco ai render per partecipare alla selezione e tutti i preventivi. Una volta vinto il concorso, abbiamo seguito la seconda fase che è stata quella di mettere a punto il progetto con render più precisi da fornire alle ditte di costruzione. Alcune di queste le conoscevo perché ci avevo già collaborato. Poi abbiamo lavorato con Pasquale Mari, light designer, con cui collaboro. Una volta approvati il progetto e i preventivi abbiamo fatto tutti gli esecutivi.
Che dialogo si è instaurato?
Più che la scenografa, ho fatto il geometra. Ci ha fatto delle richieste precise. Ad esempio, nella prima stanza voleva le macchine che ha individuato lui in una fabbrica chiusa, vicino Pavia, di Corrado Beldì, dove producevano argilla espansa. Poi la stanza degli aspiratori, l’appartamento, la manifattura, il mare. Ci ha dato degli input. Chiaramente gli abbiamo dato dei suggerimenti, ad esempio su alcuni materiali che si possono fare finti in un certo modo. Lui ha scelto un percorso: partire dalle fabbriche dismesse degli anni Settanta. Abbiamo cercato di elaborare alcune sue idee con dei render che abbiamo preparato per le ditte. Per spiegare loro cosa volesse. Ci diceva: “facciamo tutto vero”. Sono convinta che, a volte, per creare un’atmosfera sia più vero il finto del vero, se non lo tocchi, naturalmente. Gli abbiamo fatto molti esempi, abbiamo creato delle texture per far sì che tutto fosse vicino a ciò che desiderava, al suo mondo poetico.
Anche tecnicamente è stata un’impresa.
C’è dietro un lavoro immane di esecutivi. Anche perché c’erano degli sponsor tecnici. Per esempio tutte le impalcature dietro sono fatte di tubi forniti da uno degli sponsor. Abbiamo dovuto interagire con loro. Per fortuna ha vinto un appalto una ditta che conoscevamo, la Mekane. In Italia di aziende che fanno questo tipo di lavoro “finto/vero” non ce ne sono più tante. Mekane fa i film anche di Scorsese, per dire. Sono stata felicissima che ci fosse Riccardo Buzzanca (fondatore di Mekane, n.d.a) e credo che anche Tosatti si sia trovato bene perché è uno che sa fare quel mestiere lì, sa fare il finto-vero, vero-finto.
Hai lavorato con la prosa, la danza, l’Opera e per allestimenti di mostre. Avevi già collaborato con un artista visivo?
Ti dico una cosa che pochi sanno. A un certo punto volevo fare lo scultore. Ho lavorato tanti anni da Alik Cavaliere. Nel 1979-1980, non ricordo l’anno preciso, Alik faceva già delle installazioni. Abbiamo ricostruito dentro il suo vecchio studio un appartamento popolare milanese che lo faceva vivere, lo filmava. Non era quindi la prima occasione che collaboravo con un artista, seppur ragazzina. Poi ho fatto la mia carriera. È la prima volta che, da adulta, ho fatto il geometra. Se Tosatti m’avesse detto facciamo il muro verde, lo avrei fatto verde, anche se a me magari interessava di più farlo azzurro. Io ero abituata a un artista come Cavaliere. Ero piccina, ma abbiamo lavorato molto bene insieme…
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Margherita Palli è una nota scenografa svizzera diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha collaborato e collabora con molti registi, tra cui, solo per citarne alcuni, Luca Ronconi, Mario Martone e Aleksandr Sokurov. Ha vinto numerosi premi prestigiosi, tra cui sei volte il Premio UBU, il Premio Abbiati, il Premio Gassman, il Premio ETI gli Olimpici del Teatro, il Premio Associazione Nazionale Critici di Teatro e nel 2007 è nel Guinness World Records con il muro di schermi più grande del mondo. Dal 1991 si dedica, anche, all’insegnamento. È Direttrice Triennio di Scenografia alla Nuova Accademia di Belle Arti Milano (NABA) e professore all’Università IUAV di Venezia Facoltà di Design e Arti. Nel 2003 ha donato il suo archivio cartaceo al Piccolo Teatro di Milano.
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