Martedì, 19 aprile 2022, anteprima delle anteprime ai Giardini. Imprescindibile iniziare la visita alla 59ma Esposizione Internazionale d’Arte con la mostra al Padiglione Centrale, “Il latte dei sogni”, curata da Cecilia Alemani (qui la nostra intervista approfondita). Ad aprire le danze di questa edizione fatta di corpi ibridi ed erranti – decisamente legati all’idea di una introspezione a volte curiosa, altre più inquieta e oscura – vi sono alcune sale precisissime e preziose, a mescolare i tessili di Rosemarie Trockel, le sculture di Andra Ursuta, le esperienze pittoriche di Cecilia Vicuña e la metafora di un’antropofagia salvifica a ricostruire il mondo, divorando il male per concimare la terra di una rinascita.
L’essere femminile – come già ampiamente anticipato e oggi confermato – è l’universo sul quale ruota questa prima parte de “Il latte dei sogni”, dove anche le discusse “capsule del tempo” create dai Forma Fantasma diventano vere e proprie mostre nelle mostre, in un gioco di scatole cinesi che racconta di “sirene” (Nan Goldin) e di fiere e identità anche disturbanti, dall’ormai celebrata Appassionata di Carol Rama, alla produzione di Ovartaci, perfetto esempio di artista “non-omologata” a partire da una sessualità scelta e ridefinita che ha marcato i contorni creativi di un’intera esistenza passata in un istituto di cura.
L’occhio fotografico di Louise Lawler, in una bella sala completamente a lei dedicata che ci mostra la profondità di un’altra visione – in questo caso, una myse en abime dell’arte contemporanea, fotografando la mostra di Donald Judd al MoMA – è in dialogo con le armonie vocali che si rincorrono tra i performer invitati dall’artista rumena Alexandra Pirici. Ed ecco servita, in maniera sottile, l’ambivalenza del corpo tra l’effimera presenza “sonora” e l’attimo irripetibile della visione.
Continuando tra le presenze, è impossibile non identificare alcune grandi rappresentanze, quasi delle piccole sale monografiche: per esempio, quelle dedicate all’artista portoghese naturalizzata inglese Paula Rego, una delle Maestre del “Latte dei sogni”, e alle pitture di Christina Quarles. Meno azzardati, invece, i dialoghi tra le silhouette scultoree orientate a una “naturalità ” del corpo partendo dall’idea di tuta, di Sara Enrico, con Carla Accardi e i tracciati di Jacqueline Humphries.
E così, dopo questa prima immersione, “Il latte dei sogni” ai Giardini si presenta come una mostra perfettamente bilanciata, museale, senza eccessi né sbavature, con una forte predominanza di pittura circondata da installazioni che non tradiscono mai un sovraccarico visivo.
Il Brasile di Jonathas De Andrade è uno dei Padiglioni più pop che si possano incontrare ai Giardini. Il giovane artista di base a Recife ha costruito una “spina dorsale” di espressioni idiomatiche che hanno a che fare con le idee di corpo ed emozionalità , corredate da una serie di sculture enfatiche e divertenti a rimarcare il suo interesse per l’antropologia e una riformattazione intelligente della “tradizione”.
Preciso, affollatissimo e d’impatto è il Belgio di Francis Alÿs, con il progetto “The Nature of the Game”. Le strutture del gioco sono raccolte qui in una serie di video perfettamente installati e calibrati anche nelle tonalità . E se non fosse per le tragiche circostanze geografiche e sociali in cui i piccoli protagonisti molto spesso sono filmati, si potrebbe raccontare di un’utopica armonia ritrovata. Peccato che, invece, in sottofondo, vi siano guerre, discariche, dittature.
Curioso il Padiglione dell’Uruguay, dove un sarto si aggira a prendervi le misure. Qui, l’artista Gerardo Goldwasser, con la mostra “Persona”, opera una riflessione su quella che si potrebbe definire una vera e propria “omologazione dei costumi contemporanei”, fenomeno che, ovviamente, passa anche per l’abbigliamento. Rotoli di morbido tessuto industriale nero che, sul retro, ospitano le forme di cartamodelli, sono in potenziale attesa per essere tagliati in maniera uniformata e identica per corpi che – peggio per chi ci vorrebbe tutti uguali – sono destinati a restare tutti diversi e ognuno provvisto della propria, a volte difficile, intimità .
Mutati sono i corpi – talvolta anche carbonizzati – di Latifa Echakhch, al Padiglione della Svizzera: un ambiente immersivo, le cui sculture antropomorfe sono composte di materiali riciclati da precedenti Biennali. Danza e cinema invadono i corpi della Francia messi in scena da Zineb Sedira, in un Padiglione dal titolo stupendo: “I sogni non hanno titoli”.
L’Austria presenta “Soft Machine” di Jacob Lena Knebl e Ashley Hans Scheirl, un connubio di corpi e colori esplosivi, con sculture che prendono forma reimmaginando le forme di Botero, Henry Moore e Robert Crumb, in una scenografia del desiderio e dell’ironia. A completare il Padiglione, per gli appassionati di fanzine, un magazine-catalogo assolutamente da portarsi a casa, per la modica cifra di dieci euro.
Curiosi e un po’ scarichi: sono questi gli aggettivi che meglio si allineano a molti dei Padiglioni nazionali ai Giardini. Curiosi perchĂ© alcuni, come nel caso della Spagna di Ignasi AballĂ e della sua “CorrecĂon”, sembrano decisamente piĂą vicini a un’idea di architettura che non di arte. In questo caso, l’artista, attraverso un progetto scultoreo, ha ri-orientato di dieci gradi i muri dell’edificio che ospita il Padiglione della Penisola iberica in Biennale. Scarichi perchĂ©, come nel caso di Israele, ci si chiede come mai, con tre anni di tempo per mettere a punto un progetto, non si sia riusciti a focalizzarsi su qualcosa di piĂą impattante. Siccome viviamo in “tempi ben piĂą che interessanti”, a volte la retorica dovrebbe trovare un supporto visivo ben piĂą accattivante, specialmente se ci si accoda alla scivolosa idea dell’arte come messaggio di cambiamento di paradigmi sociali, culturali e di potere.
Sulla sostenibilità ci si può interrogare entrando nel Padiglione Corea, “Gyre”, dell’artista Yunchul Kim: un enorme dispendio di forme tecnologiche, plastiche, schermi iridescenti, cavi elettrici e affini, che immediatamente fanno venire alla mente le estrazioni di cobalto -per dire un minerale – che intossicano intere aree di Paesi come Cuba o di diversi Stati africani, a uso esclusivo dell’economia “verde” di stati come il Canada o i Paesi Bassi. Senza contare che, a proposito di filosofia green, sarebbe pure da mettere in conto l’obsolescenza immediata a cui vanno incontro questi manufatti dell’epoca della post-verità .
A proposito, il Padiglione del Canada con le immagini di Stan Douglas: quattro visioni postprodotte dedicate alle rivolte della Primavera araba, a Tunisi, di un episodio di violenza londinese e di un altro a Vancouver, e alle repressioni di Occupy Wall Street: è la mediazione tra la storia e la sua rivisitazione. Come detto poco sopra, con tre anni a disposizione, qualcosa di meglio ci si poteva aspettare.
Museale – come non poteva essere altrimenti – il Padiglione degli Stati Uniti messo in scena da Simone Leigh che analizza la “soggettività femminile nera […] per colmare le lacune della memoria storica proponendo nuove tipologie di ibridi”. Meno curato – e a una Biennale di Venezia è intollerabile avere l’occhio attirato dalle evidenti stropicciature di wall papers adesivi – il Padiglione della Gran Bretagna di Sonia Boyce in cui l’artista affida a cinque cantanti di colore l’espressione della loro idea personale di libertà , formalizzata in vocalizzi.
Di profondo impatto, infine, il “Desaster” di Marco Fusinato per l’Australia: crudo nelle immagini monumentali che scorrono a fare da cornice alle sessioni di chitarra elettrica dell’artista, che performerà a Venezia ogni giorno, per tutta la durata della Biennale. Un progetto noise e allucinatorio, davvero in linea con la bolla oscura che il mondo sembra stia attraversando, senza usare elementi superflui.
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