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Zoom Biennale #4: impressioni dall’Arsenale
Arte contemporanea
“Il latte dei sogni” si sparge nelle sale dell’Arsenale diluito: è questo il sentimento che pervade il mio (personale) tour alla 59ma Esposizione Internazionale d’Arte. Corpi metamorfici, intrecci di sessualità ambigue, maternità, sangue, storie di incontri ma anche angoli di una mostra al limite dell’etnografia, quasi che l’opera sia una specie di pretesto per altre narrazioni non sempre particolarmente eccitanti ma molto up to date.
La mostra, dall’inizio alla fine, ricalca la perfezione espositiva che già avevamo visto ai Giardini: un impatto decisamente museale ma, appunto, senza colpi bassi. E forse, di questi tempi, i sogni dovrebbero avere anche a che fare con gli azzardi e l’inaspettato, mentre “Il latte dei sogni” sembra un poco un concentrato di ricordi, forse un eccesso speculativo su un passato ancora troppo recente per essere allontanato, ma che sentiamo ormai distanziato dalla nostra percezione. Sarà dovuto al fatto che si tratta – come ha più volte ribadito la curatrice, Cecilia Alemani – di una Biennale costruita in un’epoca-spartiacque, di cui ancora avvertiamo pesanti le onde, e i vortici.
Eppure, nella confermatissima “femminilità” espansa di questa edizione le grida, le proteste, gli azzardi degli altri corpi non alzano la voce, ma sfilano precisi come in una parata militare. Così, l’anticonformismo del sogno errante diventa, passatemi il termine, uno spettacolo da scoprire ben comodi sulle proprie posizioni ben “integrate”, linearissimo scientificamente e – proprio per questo – senza battiti alterati.
Si comincia dalle impressionanti sculture-forno di Gabriel Chule e si incontrano subito i disegni dolorosi della brasiliana Rosana Paulino, a narrare storie di una maternità schiavizzata a supporto del mondo colonialista, dove a prevalere è il sentimento di disumanizzazione della donna. Ma la maternità si incontra anche nell’iconica scultura di Niki de Saint Phalle, così come negli arazzi decorati con perline e paillettes della haitiana Myrlande Costant che, a sua volta, tra religione vodoo, politica e società mette in scena universi variopinti dove le donne sono rappresentate come dee, madri e bestie feroci, vittime e carnefici generatrici di altri mondi.
L’anatomia femminile del seno come “recipiente” diventa astrazione quasi pure nelle belle tele di Pinaree Sanpitak, mentre di Delcy Morelos, ispirata alla “stanza della terra” newyorchese di Walter De Maria, impressiona la grande distesa di terreno che invade una parte dell’Arsenale, che lo spettatore è invitato ad attraversare per “rendersi humus”.
Louise Nevelson apre monumentalmente la bella capsula “Seduzione del Cyborg”, ma per molti altri versi c’è un altro aspetto piuttosto “decorativo” che serpeggia: nelle grandi tele-tende di Kapwani Kiwanga, così come nella “cortina” di tessuto decorata con temi riguardanti le politiche della libertà di Emma Talbot e ancora in moltissime altre opere che utilizzano ago, filo e ricamo dei più svariati materiali, da Elias Sime che “cuce” fili elettrici a creare forme che ricordano foglie e falli (e i tappeti natura di Piero Gilardi) o l’immenso arazzo di Igshaan Adams, che ricordano i pavimenti in linoleum delle case di Città del Capo che, in questo caso, metaforizzano i “percorsi del desiderio” in una metropoli la cui vita all’aria aperta e i percorsi pedonali vengono sempre più erosi da un’urbanistica innamorata del traffico.
Insomma, se ce n’è per tutti, è anche vero che il filo di Arianna che collega tutte le opere del “Latte dei sogni” appare ben poco incline alla fragilità onirica, quanto più a una dimostrazione muscolare di una rimarcata e talvolta esasperata “diversità” ad ogni costo.
Si accettano smentite.
I padiglioni all’Arsenale
Funestato da un problema tecnico che lo ha costretto a una chiusura un po’ anticipata, il Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti, “Storia della notte e destino delle comete”, a cura di Eugenio Viola, è impeccabile. Il “villaggio operaio”, il sogno del boom economico e la disillusione, la crisi industriale, la scomparsa delle lucciole per cui Pasolini avrebbe dato “tutta la Montedison” – nello struggente ambiente notturno finale, quasi uno scorcio della notte veneziana là fuori (potremmo parlare di Marghera e delle sue raffinerie, appunto) – riallinea e riabilita il nostro Paese, dopo anni di collettive in alcune edizioni ben poco eccellenti, al confronto internazionale. Peccato che – come accade anche nella mostra generale – si esca con pochi sogni in tasca, e un grande senso di sconfitta.
Il silenzio che Tosatti chiede al pubblico nello scoprire il suo Padiglione è il silenzio assordante di un Paese che oggi, appena scostata la tenda del lustro della vernice, si scopre lacerato dall’abbandono, da un incombente – ed ennesimo – disastro economico, da faide sociali, pervaso da un senso di impotenza e di continua riflessione su ciò che è stato.
Vagare per “Storia della notte e destino delle comete” è immergersi nelle gloriose rovine di un recente passato che ancora brucia al ricordo, odiato ed amato a intermittenza, come illuminano – appunto – le lucciole. Il loro ritorno, ci dice l’artista, non è una speranza vana, ma i pavimenti scricchiolano, le macchine sono ferme, gli aspiratori interrotti, la polvere intonsa. E di una riconversione, per ora, non vi è segnale.
A pochi passi dall’Italia, l’Uzbekistan. Il Padiglione è intitolato “Dixit Algorizmi – Il Giardino della Conoscenza”, ed è curato da Studio Space Caviar (Joseph Grima, Camilo Oliveira, Sofia Pia Belenky, Francesco Lupia) e Sheida Ghomashchi. Qui, al contrario di molti altri Paesi, si è scelto di creare una piattaforma di scambio e dialogo, proprio per rispondere alle incertezze dei nostri tempi: nessun quadro, nessuna scultura, nessuna installazione ma un ambiente più vicino all’architettura che non all’arte, con un vertiginoso pavimento specchiante nel quale due “arene” ospiteranno nel corso della Biennale una serie di incontri dal Centro per l’Arte Contemporanea di Tashkent (CCA).
Come dichiarato da Grima, appunto, l’idea è che la Repubblica dell’Uzbekistan “rappresenti un allontanamento dal paradigma classico che caratterizza la partecipazione alla Mostra Internazionale d’Arte, per cui principalmente il padiglione è inteso come un contenitore. Vogliamo che il padiglione diventi uno spazio di produzione di percezioni e scambi di idee, in cui voci eterogenee, dall’interno e dall’esterno del campo della produzione artistica, possano convergere e sovrapporsi”.
D’impatto è The Teaching Tree / L’Albero dell’Apprendimento, di Muhannad Shono in rappresentanza dell’Arabia Saudita, a cura di Reem Fadda. Si tratta di una grande e semplice installazione che esplora i temi della creazione, della rigenerazione, della natura e della mitologia, dove una immensa chioma scura e orizzontale composta da foglie di palma ondeggia impercettibilmente rilasciando il suono del vento e della natura nelle fronde.
Shono, rappresentato dalla Athr Gallery di Jeddah (lo ricordiamo anche per un bel solo show ad Artissima 2019, nella stessa galleria) e per la sua partecipazione con una grande installazione nel deserto saudita di Al’Ulá (nella prima edizione della Biennale Desert X, 2020) è certamente uno degli artisti più rappresentativi del bacino Medio Orientale, in grado di operare su elementi primari – come la linea – mettendone in mostra il suo doppio potere creativo e distruttivo.
Il Perù, per chiudere questo secondo giorno biennalesco, è forse il padiglione più naif nel senso migliore del termine: un tuffo negli anni ’80 e ’90 del Paese sudamericano, per scoprire Herbert Rodríguez (Lima, 1959), l’artista più radicale e critico dell’arte peruviana contemporanea, praticamente sconosciuto da queste parti. “La pace è una promessa corrosiva”, titolo del padiglione, raccoglie cinque anni di produzione (1985-1990) e comprendono resti della sua produzione agit-prop (fotomontaggi, collage, stencil, serigrafia e pittura) realizzati sulle linee metropolitane a raccontare una scena creativa che rifiutava tutti gli aspetti della vita peruviana dell’epoca ma che, sebbene riconoscesse la violenza presente all’epoca, non assunse mai alcun connotato politico: un vero graffio al vetriolo che non sembra essere per niente fuori tempo massimo – le immagini, si sa, vanno e vengono -, con una fanzine esplicativa degna di nota.
il Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti, forse,“sarebbe opportuno aver visto Mike Nelson alla TATE “qulche anno fa”