Ciò che é bello delle Biennali é che non si vedono mai per intero.
Si percorrono, ultimamente s’instagrammano, ma si dimenticano e riaffiorano, anche se più spesso fingiamo servano come interpretazioni per il sogno dell’arte. Riaffioreranno nelle memorie e nei «for you» dei nostri telefonini. Questa della bravissima Cecilia Alemani evoluta in remote e vista in presenza é come una catastrofica blind date. Come un gigantesco profilo Tinder dell’arte contemporanea dove tutti hanno costruito un elegantissimo profilo ma temono il contatto dello sguardo allenato dei professionisti.
Nessuno é innocente e nessuno uscirà vivo da questa costruzione perfetta di logiche
e significati. Gender fluid, elegantemente femminista al punto da sembrare edulcorata
ma soprattutto abilmente presentata come una costruzione ideologica e non commerciale,
anche se il mercato si nasconde malamente, ma forse nemmeno più di tanto in ogni formato e dietro ad ogni falsissimo «courtesy the artist» anche ai Giardini e all’Arsenale.
La scorsa edizione in cui vivevamo interrogativamente tempi interessanti riproponeva lo stesso artista con un’opera museale ai giardini e commerciale all’arsenale o viceversa. Sempre tenedo d’occhio il mercato visto che oramai la produzione é un just in time per eventi di questo tipo.
Facili le battute sul latte: alle ginocchia, cagliato, versato che abbiamo sentito circolare nei giorni delle preview. La realtà é che siamo un pubblico stanco, in overdose di magnifiche scoperte e riscoperte, quest’anno poi a dosi massicce di surrealismo si aggiunge un afflato
ecumenico per la taumaturgia dell’artigianato che collassa da tutte le latitudini in opere
dal felice potere ipnotico. “Il latte dei sogni” é come l’Oxicontyn, un antidolorifico che inventa ed amplifica il dolore, creando una dipendenza ed un’escalation di consumo.
Non sappiamo più difenderci dall’incremento di un piacere perverso che é quello del riconoscere, riconoscersi ed amplificare la seduzione delle opere. Il Surrealismo non é una teoria, ma una istantanea del lavoro simbolico che la borghesia mette in atto per non capitolare all’orrore del deserto del reale. Questo di Venezia 2022 é un surrealismo di arabeschi, di ghirigori quasi una tela diragno che senza pietà incapsula artisti bravi e meno bravi artisti che ritornano ed altri che non se ne sono mai andati dall’orizzonte del contemporaneo.
Poi si dovrebbe secendere nei dettagli, ma sarebbe un gioco di chiosa. I padiglioni stranieri e gli eventi collaterali forniscono un collante ad una materia che si agglutina nel desiderio
di tutti coloro che da mesi e mesi non si godevano una kermesse con tutto ciò che questo significa. Credo che dovremmo considerare tutti insieme il fallimento e confrontarci con dei modelli di mostre che la pandemia non ha sepellito e che non sono ancora stati sotituiti dall’esperienza diffusa dell’arte. Quando avremo cambiato il nostro modello di consumo dell’arte potremo probabilmente godere dell’ostensibilità della bellezza e del magico.
Ecco, la magia é ciò che mancato a questa edizione. La prestidigitazione non é l’alchimia
ed il potere evocativo di magnifiche opere a volte non basta alla bulimia dei nostri sguardi.
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