Ironica e divertente, spiazzante con “leggerezza”, Tomaso Binga (pseudonimo maschile che Bianca Pucciarelli Menna ha adottato negli anni Settanta per contestare i privilegi del mondo maschile) – è nata a Salerno nel 1931, vive e lavora a Roma – è tra le artiste e gli artisti che Cecilia Alemani, curatrice della 59. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, ha invitato per la mostra internazionale “Il Latte dei sogni”: il titolo è preso in prestito dall’omonimo libro di Leonora Carrington. Già nel ’78 il suo Dattilocodice, generato dalla sovrapposizione delle battute di segni e lettere della macchina per scrivere, fu presentato alla Biennale di Venezia nella mostra “Materializzazione del linguaggio”, curata da Mirella Bentivoglio ai Magazzini del Sale. Dell’artista visiva, poeta e performer, autrice di vari libri di poesie tra cui Rimerotiche (1992), Vorrei essere un Vigile urbano (1995), Valore Vaginale (2009), è in uscita la nuova raccolta Le pene del pene.
In passato hai più volte affermato che la tua “consacrazione” di artista sarebbe arrivata al compimento degli 80 anni. In effetti, il primo riconoscimento importante della tua carriera è stato nel 2011, ad Artissima, quando la commissione internazionale composta da Cristine Macel, Jessica Morgan e Massimiliano Gioni selezionò tre opere fondamentali del tuo percorso – Carta da Parati, Scrittura Vivente e Dattilocodice – per la sezione Back to the Future.
Finalmente sono stata accolta nel mondo dell’arte! Il trampolino di lancio è stato proprio lì. Ho sempre lavorato per gioco. Anche da piccola facevo tanti giochi, sia linguistici che con il disegno, all’inizio accompagnata da mio padre, Nicola Pucciarelli, che era un artista mancato. In Uruguay, dove era emigrato, faceva vetrate artistiche. Tornò in Italia per sposare mia madre, ma poi le frontiere furono chiuse per via della guerra e lui non poté più ripartire. Però continuò a dipingere per sé. In casa io e le mie sorelle abbiamo tantissimi suoi quadri. Lui ci ha inculcato questo suo desiderio dell’arte. Fin da piccoline ci insegnava come disegnare. L’ho scritto anche in una poesia. Prendeva la mia mano e, con sopra la sua, mi faceva disegnare un ramo, una mela.
In casa circolavano anche libri di Tommaso Filippo Marinetti…
Ricordo il suo libro Come si seducono le donne. Marinetti era un avanguardista che diceva di non amare donne timide e timorose, ma una donna che fosse libera di fare quello che voleva.
Nei tuoi lavori lo citi spesso…
In generale la scrittura mi interessava allora e continua ad interessarmi anche oggi. Lavoro da sempre sugli alfabeti. Ne avrò fatti decine, dall’Alfabeto del Corpo (le fotografie sono di Verita Monselles – ndR) all’ultimo Alfabeto poetico monumentale, a cui sto continuando a lavorare. In casa c’erano anche molti cataloghi che mio padre spediva a mia madre quando erano fidanzati. Mi è sempre piaciuta tantissimo la combinazione dei font e delle diverse grandezze delle lettere all’interno della parola stessa o della pagina.
Nel riconoscimento internazionale del tuo lavoro, un altro step importante è legato alla moda grazie all’incontro con Maria Grazia Chiuri e la maison Dior per la sfilata autunno/inverno 2019/2020 al Jardin del Museé Rodin a Parigi, dove per la scenografia è stato usato il tuo storico Alfabeto del corpo…
È stata un’esperienza molto interessante e nuova per me, nonché un trampolino di lancio non indifferente. Sulle due pareti laterali di quel grande salone c’era tutto l’Alfabeto del Corpo. Ogni lettera era alta 1 metro e 60 centimetri! Avevo scritto un acrostico sotto forma poetica, che però non era nel programma dell’evento. Poco prima dell’inizio della sfilata ho detto alla Chiuri che mi sarebbe piaciuto recitare quella poesia. Detto fatto! In dieci minuti – ma proprio 10 minuti! – ha organizzato tutto. Chiesi di avere accanto a me due indossatrici, le più alte, perché potessi stare in mezzo a loro – piccola – e loro fossero come due colonne. Indossavo un abito che mi ero fatta da sola, ma tutti hanno pensato che fosse di Dior! (ride)
La tua creatività si è sempre espressa anche attraverso il tuo modo di vestire…
Mi piaceva cucire, inventare indumenti. Ho dei vestiti un po’ stravaganti che, però, dovevano sempre essere delle “cose” in trasformazione Non ho mai lavorato su una tela o una stoffa che fosse intonsa. Magari prendevo dei panni già utilizzati, pantaloni e vestiti che cucivo insieme trasformandoli.
L’elemento della trasformazione, particolarmente evidente nell’utilizzo della parola in quanto poeta e performer è centrale nelle opere di scrittura desemantizzata come Scrittura asemantica (1972), Abbassalingua (1974), Scrittura Vivente (1975), Dattilocodice (1978), Biographic (1985), Picta/Scripta (1995)…
Sì, infatti. È tutto incentrato sulla parola che prende altre forme. Alla Biennale Arte 2022 sarà esposto il mio lavoro storico Dattilocodice, che è l’antesignano di un nuovo lavoro che ho chiamato Alfa Symbol e che si può definire la sua evoluzione. Due lavori che hanno in comune tante analogie. Intanto si tratta sempre di alfabeti che trasformo mescolando due lettere insieme, ma quest’ultimo è fatto al computer anziché con la macchina da scrivere. Ho scelto font che avessero un segno pregnante e un impatto visivamente molto forte. Li ho manipolati per trasformarli in pagine visuali. Ho utilizzato lo stesso modus operandi, ma con una tecnica che è progredita seguendo i tempi. Inoltre, lavorare al computer dà possibilità in più anche in termine di grandezza dell’opera, perché non si è limitati al foglio di carta. Anche nel mio modo di lavorare c’è quindi stata un’evoluzione!
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