Occupazioni, correzioni, svelamenti e dislocazioni: i padiglioni nazionali alla Biennale di Venezia sono sull’orlo di una crisi d’identità. E non potrebbe essere altrimenti. In un’epoca di stravolgimenti geopolitici, il turbocapitalismo globale e colonizzante — che ci allinea, ci omologa e ci controlla — sembra sempre più scontrarsi con la difesa dei territori, delle identità, delle culture, delle terre, dei confini, sia da parte delle popolazioni che dei governi, dall’Amazzonia ad Hong Kong, alla Finlandia, il cui Parlamento ha votato a favore della sua adesione alla Nato per difendere i propri confini. In Europa tendiamo ancora a percepire le frontiere territoriali come qualcosa di impalpabile e facilmente valicabile ma le rigide politiche sull’immigrazione, in occidente come in oriente, e le repentine restrizioni sulla mobilità dovute alla pandemia ci fanno capire quanto i confini siano, al contrario, tutt’altro che linee sbiadite segnate su una mappa. Glocale non è soltanto un neologismo riposto nel vocabolario ma è la dimensione in cui ci troviamo a vivere. L’unione dei due termini — glo(bale) e (lo)cale — funziona bene sulla carta, ma il termine è molto più complesso e complicato da applicare sulle mappe geopolitiche mondiali.
Durante i giorni di anteprima della Biennale d’arte di Venezia, si aggiravano per i padiglioni alcuni giovani che si guardavano attorno, camminavano lentamente per poi fermarsi di scatto e assumere pose inconsuete, alla Erwin Wurm. Quei performer/danzatori erano un’estensione itinerante e clandestina del padiglione croato. Sull’unica immagine diramata dall’artista Tomo Savić-Gecan, che come Tino Sehgal, non fa circolare nessuna documentazione visiva o rappresentazione delle sue opere, si legge: “Ogni giorno, per tutta la durata della 59a edizione della Biennale d’Arte di Venezia, la notizia principale, tratta da una fonte globale di notizie e selezionata casualmente, fornisce i dati che alimentano un algoritmo di intelligenza artificiale che a sua volta prescrive l’ora, il luogo, la durata, i movimenti e il pensiero di un gruppo di cinque performer nella città di Venezia per costituire Untitled (Padiglione croato) di Tomo Savić-Gecan, 2022”. Un’occupazione performativa itinerante, algoritmica e clandestina che mette in discussione il concetto di “territorialità”, seguendo l’andamento del palinsesto mediatico mondiale e affidandosi all’IA.
Ignasi Aballí ha deciso invece, a cent’anni dalla costruzione del padiglione spagnolo, di “correggere” l’edificio che, rispetto agli altri che si affacciano sul viale, costruiti prima, non è allineato. L’artista ha “corretto” l’errore, ricostruendone l’interno in scala 1:1 con una rotazione di 10 gradi e con le nuove pareti dipinte di un bianco diverso per distinguerle da quelle originali. Un intervento artisticamente stitico, che di fatto lascia il padiglione vuoto, ma concettualmente e architettonicamente rilevante e spiazzante. L’artista ha inoltre pubblicato dei libretti, sorta di guide emozionali della città di Venezia, dove la mappa, tradizionalmente intesa, non indica luoghi fisici ma sensazioni da esperire.
Ad aver lasciato il padiglione, apparentemente, vuoto è anche Maria Eichhorn che rappresenta la Germania. L’artista ha scelto di indagare l’identità storica del padiglione, togliendogli la pelle per scoprirne le tracce delle diverse fasi di costruzione. Si vedono porzioni di muro senza intonaco con i mattoni a vista o una striscia di pavimento rimosso da cui si scorgono le vecchie fondamenta e le stratificazioni di interventi di artisti che hanno agito su e dentro quella struttura. È un progetto artisticamente respingente ma concettualmente e storicamente rilevante.
L’entrata al Padiglione dell’Olanda ai Giardini è un cortocircuito. La scritta sul padiglione riporta ancora Olanda ma dal 2019 dovremmo, secondo il governo dell’Aia, dire Paesi Bassi. Ma non è questo il punto. Una ragazza di fronte all’edificio accoglie i visitatori con una brochure dicendo: “Welcome to Estonia”. Benvenuti in Estonia. Sì, perché quest’anno i Paesi Bassi hanno deciso di concedere il loro spazio e la loro visibilità — l’edificio si trova nel viale che porta al Padiglione Centrale — all’Estonia per spostarsi nella Chiesetta della Misericordia a Cannaregio.
Il fenomeno di transnazionalità dei padiglioni non è nuovo. Solo per fare qualche esempio: nel 2011 la coppia formata da Jennifer Allora (americana) e Guillermo Calzadilla (cubano) — artisti che vivono a San Juan, Porto Rico — sono stati invitati a rappresentare gli Stati Uniti; nel 2013 Francia e Germania si sono scambiati i padiglioni, ospitando tra l’altro artisti non delle rispettive nazionalità; quest’anno il Padiglione dei Paesi Nordici ha concesso lo spazio a tre artisti appartenenti alla popolazione indigena nomade europea ancora esistente, i Sámi, che vive nel circolo polare artico tra Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia.
Ci eravamo abituati ad andare alla Giudecca per visitare il Padiglione islandese e ora ce lo ritroviamo compresso in uno striminzito spazio di “passaggio” all’Arsenale. Abbiamo applaudito il Padiglione lituano (Leone d’Oro alla Biennale del 2019) allestito in un bellissimo spazio di proprietà della Marina Militare, solitamente chiuso al pubblico, alle Fondamenta Case Nuove e ce lo ritroviamo in una location a Castello. Sì, perché di location si tratta! Nel 2018, alla Biennale di Architettura, debuttava sull’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, il Padiglione della Santa Sede. Perché il Vaticano non ha partecipato col proprio padiglione anche alla Biennale Arte?
Sorprende trovare un cartello sulla facciata del Padiglione della Repubblica Ceca e Slovacchia ai Giardini che ci dà appuntamento alle prossime edizioni perché l’edificio è in ristrutturazione e quindi il paese, quest’anno, non è rappresentato. Nel 1970 il Padiglione della Cecoslovacchia recava scritto: “Chiuso per motivi tecnici. Informazioni al padiglione sovietico”. Quest’anno però il padiglione della Russia, in guerra, è chiuso per volontà del suo curatore lituano Raimundas Malašauskas e degli artisti russi Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov. Mentre l’Ucraina, in guerra, è presente col suo padiglione e diverse iniziative, con tanto di discorso video del suo presidente Zelensky all’opening di THIS IS UKRAINE: DEFENDING FREEDOM, mostra presentata dalla Fondazione Victor Pinchuk in collaborazione con l’Ufficio del Presidente dell’Ucraina e il Ministero della Cultura e della Politica dell’Informazione dell’Ucraina (qui il video)
La domanda a questo punto sorge spontanea, non è giunto il momento di riflettere sul ruolo di questi padiglioni, sulla loro autenticità, unicità, riconoscibilità, rappresentatività, identità e attualità? Nel 1907 la Biennale ospitò ai Giardini il primo padiglione nazionale, quello del Belgio, progettato da Léon Sneyers — gli varrà il Prix Picard dell’Académie Libre de Belgique — dando il via a una serie di edifici progettati dai principali architetti di ogni Paese. Strutture architettoniche con la propria unicità e riconoscibilità. Ogni anno si “annettono” altri Paesi alla madre Biennale. Ma possiamo ancora parlare di padiglioni senza i padiglioni? Avremo mai un padiglione dell’Unione Europea? Sarebbe rassicurante instituire un padiglione globalmente condiviso dell’acqua, della terra o del clima, ma è molto più probabile che sia Marte ad avere prima o poi un padiglione a Venezia.
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Sono pienamente d'accordo. Analisi lucida ed attuale