Il vuoto. E muri scorticati in più punti, con mattoni rossi a vista, più uno scavo profondo, fino alla fondamenta: così si presenta il Padiglione Germania di Maria Eichhorn al pubblico della 59ma Biennale d’Arte Contemporanea di Venezia, come una specie di cantiere. Varcandone la soglia dopo gli altri Padiglioni è un po’ come se il volume si abbassasse all’improvviso; la prima sensazione è di rimanere spiazzati e “a bocca asciutta”. Sensazione non nuova per chi conosce i lavori di Eichhorn. Artista affermata – come noto ha alle spalle, tra le altre, partecipazioni a documenta 11 e 14 – Maria Eichhorn (1962, Bamberga, vive a Berlino) è celebre per le sue raffinate operazioni concettuali. I suoi progetti si sviluppano nel tempo, tempo richiesto anche al pubblico per avvicinarsi ai suoi lavori.
Solo documentandoci apprendiamo infatti il significato di quei muri scorticati: un levare, uno scavare, per far emergere un pezzo di storia del Padiglione. L’eliminazione degli strati d’intonaco dai muri rende visibili i punti di giunzione tra la struttura originaria Padiglione Bavarese, eretto nel 1909 su progetto di Daniele Donghi, e il suo successivo ampliamento ad opera del regime nazista del 1938, che gli conferì l’aspetto attuale. La “nazificazione” ne stravolse i volumi, aumentò l’altezza, creò insomma uno spazio monumentale destinato a intimidire i visitatori e soffocare l’arte. Un’eredità pesante, che con la sua plumbea carica simbolica ha sempre obbligato al confronto artiste e artisti invitati negli anni a esporre nel Padiglione. Un nome tra tutti, Hans Haacke, che nel 1993 ne distrusse e ridusse in macerie l’intero pavimento. A confronto l’intervento di Eichhorn appare meno scenografico e muscolare. Ma non è tutto qui: anche se non immediatamente visibile, dietro a quella che appare un’operazione ostinatamente concettuale, si cela un approccio critico puntuale, profondo e impegnato.
La chiave va forse trovata nel titolo del contributo: “Relocating a structure”. Sembra che l’artista abbia spostato, “rilocato” il carico di contenuto più forte dell’opera fuori dal Padiglione e dalle sue mura fisiche. Fanno infatti parte del progetto un’ampia pubblicazione, un fitto programma di visite alla città di Venezia e la “rilocazione temporanea del Padiglione”. Quest’ultimo è il frammento più intangibile e utopico del contributo, ipotesi radicale, rimasta però sulla carta. Il progetto, per cui l’artista ha raccolto dettagliata documentazione tecnica, con tanto di rendering e studi progettuali, prevedeva l’eliminazione temporanea del Padiglione Germania per tutta la durata della Biennale, attraverso l’antica tecnica della rilocazione. Al suo posto sarebbe rimasto un eloquentissimo vuoto, la vista sgombra verso la Laguna e un nuovo respiro per i Padiglioni vicini.
Nei mesi prima dell’apertura, in cui poco è trapelato sull’intervento di Eichhorn al Padiglione, si era creata un’aspettativa per un gesto di una portata quantomeno simile. Aspettativa implosa. Sono intuibili le difficoltà di una tale operazione a livello tecnico, finanziario e non ultimo giuridico, visto che l’edificio è sotto tutela. Ma con la sicurezza di un credo incrollabile, il curatore Yilmaz Dziewior assicura che «La rilocazione temporanea del Padiglione Germania è un’opera artistica che esiste anche senza la sua esecuzione materiale». Affermazione che alle orecchie di molti suonerà come uno sforzo di funambolismo concettuale («Le persone hanno bisogno di qualcosa da vedere, da sentire» – obietta una signora al termine della preview stampa).
Le visite alla città, gratuite (qui tutte le informazioni), promettono invece una maggiore accessibilità. Concepite con lo storico Giulio Bobbo, collaboratore dell’Iveser e Luisella Romeo, guida turistica, toccano luoghi della deportazione e assassinio della popolazione ebraica e della Resistenza antifascista a Venezia. Un percorso documentato anche in una brochure e che passa attraverso le vie che conducono ai Giardini della Biennale, svelando storie invisibili dietro a edifici noti come ad eempio. la stazione di S. Lucia, l’Arsenale, ovviamente il Ghetto, ma anche dietro alla “Riva dei Sette Martiri”, al monumento alle Partigiane di Murer e quello agli internati, e molto ancora.
Su un altro, ulteriore livello, si colloca infine la pubblicazione – poderosa, trilingue, in vendita presso il Padiglione – che, come una mappa mentale, raccoglie il substrato teorico e filosofico del lavoro di Eichhorn, da Arendt a Lévinas, e quindi riflessioni sul senso, oggi, dei padiglioni nazionali «È possibile produrre e recepire l’arte in modo più indipendente di quello offerto da questi costrutti di identità nazionale?», si chiedeva l’artista all’inizio del progetto. Nella pubblicazione si trovano anche le ricerche sulla storia del Padiglione (parzialmente pubblicate anche sul sito) e sui contraddittori tentativi di “denazificarlo”, fatti nel tempo persino da Arnold Bode, co-fondatore di documenta. Rimangono purtroppo confinati – o affidati – alle pagine della pubblicazione anche temi scottanti e attuali, come il ruolo della Biennale sullo sfondo di forze antagoniste, tra turismo di massa e cittadini, affrontati nel puntuale saggio di Marco Baravalle, curatore e attivista residente a Venezia.
Insomma, “Relocating a Structure” è un progetto articolato, che ha il peso di un’operazione culturale, più che strettamente artistica. E anche se i diversi elementi di cui si compone saranno accolti con intensità diverse ciò «Non è necessariamente legato alla loro importanza per il progetto nel suo complesso», assicura il curatore Yilmaz Dziewor, nel suo saggio in catalogo.
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