Fu Alberto Giacometti, l’artista svizzero grande amico di André Derain, a definirlo così, cioè un artista coraggioso. E, in effetti, ci voleva un bel coraggio ad abbandonare il Fauvismo, dopo che lo stesso Derain (1880-1954), insieme a Matisse, dal 1905 al 1910, ne era stato ispiratore e iniziatore, per tornare al Classicismo.
Non fu facile capire questa sua operazione in controtendenza, questo ritorno all’Ordine, rispetto allo spirito avanguardistico e “selvaggio” della prima fase. Carrà la intese come una protesta contro l’”ebbrietà cromatica” dei Fauve; Breton, che pure lo ammirava, lo accusava di aver esaurito la sua vena creativa.
Eppure, Derain era stato in qualche modo anche antesignano del movimento cubista, insieme a Braque e Picasso, entrambi suoi amici, senza però mai oltrepassare la fase di scomposizione dell’oggetto.
A preparare il terreno verso questo ritorno all’Ordine, contribuì il periodo che va dal 1911 e il 1914, secondo alcuni critici, uno dei punti più alti della sua parabola artistica, nel quale Derain, ancora una volta, si fa anticipatore di movimenti che in seguito troveranno modo di svilupparsi autonomamente, come la “nuova oggettività” o la “metafisica”. È il cosiddetto periodo “bizantino”, di cui il Portrait d’Iturrino (1914) è uno dei lavori più significativi.
Dopo la traumatica esperienza della prima guerra mondiale, Derain sentì la necessità pressante di cercare altrove la sua ispirazione, rifacendosi alla tradizione dell’arte antica, complice anche il suo viaggio a Roma nel 1921 e il suo ossessivo vagabondare per musei. “La mia testa trabocca di tutto un mondo che non vuole uscire”, scrive alla moglie Alice.
La sua “inquietudine” non era una ricerca nostalgica del passato ma il bisogno di arrivare a cogliere “il segreto delle cose”. D’altra parte, a differenza di Cézanne, che ammirava ma che si era concentrato su pochi temi, Derain cercava incessantemente di esplorare nuove strade che lo ispirassero.
Era un grande erudito. La sua cultura toccava tutti i campi dello scibile. E nella pittura in particolare la sua conoscenza spaziava dall’arte greca a Corot e continuava a studiare, approfondire, sperimentare, fino a sentirsi quasi soffocare dal peso della tradizione.
Fino ai primi anni Trenta, Derain è tra gli artisti europei più ammirati. Poi, dopo la morte del suo gallerista e un episodio poco chiaro, che nel 1941 lo fa passare per collaborazionista, la sua immagine comincia a vacillare e di lui come pittore rimane integra solo la sua esperienza fauvista.
La retrospettiva organizzata dal Museo d’Arte di Mendrisio, a cura di Simone Soldini, Barbara Paltenghi Malacrida e Francesco Poli, che si avvale di prestiti da prestigiosi musei francesi, sceglie di focalizzare l’attenzione soprattutto sulla seconda fase pittorica di Derain, post-fauvista, rimasta per diversi anni in ombra e riscoperta solo a partire dalla mostra che si tenne a Parigi nel 1994-95.
Nel museo di Mendrisio sono presenti (fino al 31 gennaio 2021) 70 dipinti, 30 opere su carta, 20 sculture, 25 progetti per costumi e scene teatrali (in particolare balletti, alla cui realizzazione si dedicò per anni), oltre a illustrazioni per libri, fotografie e alcune ceramiche.
I suoi lavori sono esposti non in modo cronologico ma per generi: paesaggio, nature morte, ritratti, autoritratti, nudi femminili, sculture. L’esposizione ci fa cogliere bene la poliedricità di questo artista che da “selvaggio” che era stato in gioventù, fini per abbandonare, quasi rinnegare, nelle sue ultime opere, il colore, facendo prevalere, con sfondi neri e immagini cupe, il senso del mistero.
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